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Il sesso al tempo dei Moche

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L’amore al tempo dei Moche era sanguigno, sensuale e piuttosto fantasioso. Circa un terzo dello spazio espositivo del Museo Larco di Lima è dedicato all’arte erotica precolombiana, con una predilezione particolare per la civiltà Mochica che si sviluppò principalmente lungo la costa dell’odierno Perù tra il 100 a.C e il 750 d.C.

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Specializzati nella ceramica e nella metallurgia, i Moche hanno rappresentato ogni aspetto della loro società gerarchizzata non esimendosi dal fissare in statuette momenti e motivi della vita umana. Fra questi, in maniera assolutamente incredibile, c’è il sesso. Considerata parte integrante della religione, l’unione carnale era quanto di più alto potesse essere consumato a ogni livello della scala sociale. Persino I morti e gli dei passavano il tempo a fare l’amore unicamente per mantenere il proprio equilibrio interiore.

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Gran parte degli oggetti che oggi testimoniano la spregiudicatezza di questa civiltà preincaica provengono da sepolcri e tombe che ben testimoniano il particolare rapporto tra vita e morte concepito dai Moche. Essi, infatti, credevano che il cosmo fosse costituito da tre dimensioni in contatto: quella dei vivi, quella dei morti e quella degli dei. Sostiene l’antropologa Anne-Christine Taylor che «le scene di sesso tra vivi e defunti sono la celebrazione degli scambi tra gli abitanti del cosmo. Il sesso era il motore che permetteva ai tre mondi di restare in contatto».

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Ecco allora che, tra le ceramiche incise dalla popolazione Mochica, troviamo peni eretti e vulve spalancate, masturbazioni di gruppo, atti di sodomia, orge, sesso orale e tantissime scene di accoppiamento tra uomini e defunti, animali, ermafroditi e scheletri. Ciascun reperto era dipinto di rosso e bianco con varie sfumature, prima di essere cotto nei forni ed essere utilizzato, probabilmente, per scopi rituali.

Alle epoche più remote risalgono infatti sicuramente le immagini simboliche di organi genitali connesse al culto della fertilità. Più tardivo è invece un repertorio non sempre ricollegabile alla sfera della fecondità, come testimonia una ceramica raffigurante un uomo nudo disteso a terra mentre alcuni rapaci si avventano sul suo fallo che, con evidente paradosso, è eretto a testimoniarne l’eccitazione. Forse una traccia di un masochismo ante-litteram? Non è dato saperlo.

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L’elemento dominante è comunque, in ogni caso, di natura religiosa. Aia Paec, dio giaguaro simbolo della terra e il rospo, rappresentazione dell’acqua, sono spessissimo raffigurati nell’atto di accoppiarsi; dalla loro unione nascerà un essere dalle orecchie di giaguaro e le sembianze di rospo, quel dio delle attività agricole figlio delle maggiori divinità della civiltà Moche.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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