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Il complesso di City Life.

The Shopping Mall: cercando l’America che non c’è più

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8 minuti di lettura

Tra i diversi vizi degli italiani, c’è sicuramente lo scimmiottamento continuo dell’America e di tutto ciò che è americano. Uno scimmiottamento che di solito riesce molto male, visto che nemmeno la moderna e ormai più-europea-che-italiana Milano è New York. Figuriamoci se tante altre città italiane possono essere anche solo vagamente accostate alle megalopoli d’oltreoceano. Per dirla in modo tautologico, ma forse non così scontato, l’Italia è l’Italia, gli USA sono gli USA. E va benissimo così, non c’è nulla di sbagliato in questo. L’unica cosa sbagliata è che troppi italiani si sono convinti che per essere più fighi bisogna per forza essere americani.

Già nel lontano 1956 Renato Carosone si prendeva bonariamente gioco degli italiani americanofili nella sua canzone cult Tu vuo’ fa’ l’americano, cantando: «Comme te po’ capì chi te vo’ bene si tu le parle ‘mmiezzo americano? Quando se fa l’ammore sotto ‘a luna, como te vene ‘ncapa ‘e di’ “I love you?». E aveva ragione. L’italiano è ormai, per dirne una, infarcito di anglicismi usati talvolta senza criterio, quando ci sarebbero parole in italiano per rendere gli stessi concetti, che non vengono usate per non sembrare degli sfigati. Anche se ogni tanto gli americani, quelli veri, sorridono quando ci sentono usare con convinzione espressioni o strutture che ci suonano tanto inglesi ma che in realtà nella loro lingua non vogliono dire niente.

Tutti pazzi per lo shopping mall

Ultima frontiera del tentativo di americanizzare l’Italia a ogni costo (dopo le tante commedie italiane che provano a imitare l’umorismo americano con scarsissimo successo) è l’avanzata da questo lato dell’Atlantico dei centri commerciali. Che cosa c’è di più americano, e dunque di più figo, di uno shopping mall? E così, solo per citare due casi recenti, nella primavera 2016 è stato inaugurato Il Centro ad Arese; nell’autunno 2017 City Life a Milano, in zona Portello. Hanno avuto entrambi un grandissimo successo, che a tratti ha lasciato basita l’opinione pubblica. Emblematico il caso delle persone che ad aprile 2016 fecero ore e ore di fila per mangiare il pollo fritto di KFC – altra catena americana – nella prima filiale italiana aperta proprio al Centro. Come se non avessero mai mangiato del pollo fritto in vita loro, o forse quello che contava davvero era il logo di KFC. Nello stesso giorno si votava per il referendum sulle trivelle. L’affluenza alle urne fu talmente bassa che non si raggiunse nemmeno il quorum, e qualcuno ironizzò commentando: «Ovvio che non è andato nessuno a votare! Erano tutti in coda da KFC!»

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Il Centro di Arese.

Ironia a parte, l’idea che sembra emergere è che l’italiano medio davanti a ciò che è americano perda la testa. File chilometriche per KFC. Gente che sgomita per entrare nel primo Primark d’Italia (che poi la catena è irlandese, ma tant’è, non la senti già l’aria angloamericana?) Altri che non vedono l’ora che il prossimo settembre Starbucks apra il suo primo punto vendita italiano a Milano. In tutto questo, però, c’è qualcosa che agli italiani sfugge.

Se il mall agli americani non dice più nulla

Oltreoceano i centri commerciali sono in crisi da un pezzo. Udite udite, gli americani si sono stufati dei mall su più piani e di quanto sembrino poco autentici. Standardizzati. Gli americani volano in Italia per le vacanze o per gli studi e si incantano davanti ai negozietti, all’atmosfera meno roboante e a tutto ciò che a noi sembra un po’ da sfigati. Si potrebbe rispondere che banalmente l’erba del vicino è sempre più verde. Impazziamo per sembrare americani, ma ci rifacciamo a un modello di americani che abbiamo in testa noi, un modello che nella realtà dei fatti non esiste più.

I centri commerciali americani chiudono. Starbucks è in crisi perché le sue dimensioni l’hanno portata a una standardizzazione che agli yankee non piace proprio. Ormai oltreoceano è vista come una normalissima catena al pari di McDonald’s. Molti di noi si sentiranno sul set di un film americano quando tra qualche mese gireranno tra via Dante e piazza Duomo con in mano il bicchierino con il famoso logo della sirena verde, e nel frattempo gli americani in Italia impazziranno per i bar più raccolti, che danno l’idea di essere unici, in cui tutti gustano un buon espresso o un cappuccino in una tazza di ceramica.

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Il complesso di City Life.

Per una strategia globale multidomestica

Per l’amor del cielo, un centro commerciale genera un ottimo indotto (se ha successo), quindi ben venga Il Centro e ben venga City Life (che tra l’altro è andato a rivalutare una zona di Milano che fino a qualche anno fa non era delle migliori… in questo senso, la felice esperienza del complesso di Porta Nuova docet). Dovremmo solo imparare a non idolatrare a prescindere tutto ciò che è americano, e a non buttare via in toto tutto quello che contraddistingue quella cultura italiana che in realtà tanto piace all’estero.

Il mondo di oggi, volenti o nolenti, corre spedito sempre più addentro la globalizzazione, al punto che molte aziende ormai adottano una strategia detta globale, che considera tutto il pianeta come mercato potenziale. E sono proprio i casi aziendali a insegnare che non viene premiata tanto la standardizzazione dei costumi, quanto una strategia multidomestica attenta a integrare bene novità straniere nei diversissimi tessuti locali. Ben vengano le suggestioni a stelle e strisce, allora, ma solo se le sapremo far vivere in Italia in un modo che sembri più una strizzata d’occhio al multiculturalismo che un’inutile forzatura che ci illuda di essere più fighi. Tanto noi non saremo mai americani. E va più che bene così.

 

Francesca Cerutti

Classe 1997, laureata in Lingue per l'impresa e specializzata in Traduzione. Sempre alla ricerca di storie che meritino di essere raccontate. Nel 2020 è stato pubblicato il suo romanzo d'esordio, «Noi quattro nel mondo».

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