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Il caso Silvia Romano. La sconfitta dell’analisi critica

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La liberazione della volontaria Silvia Romano ha innescato la reazione demoralizzante del proliferare di giudizi – positivi e negativi – che hanno diviso il Paese su questioni epidermiche, le più evidenti, ma anche le meno rilevanti, come la professione di fede (risolvibile con l’ufficio dell’articolo 19  della Costituzione e, eventualmente, con una perizia psicologica che riveli se essa dipenda da un plagio psicologico o da una libera decisione spirituale) e il denaro utilizzato per il riscatto. In molti hanno espresso la loro opinione in merito, senza neppure tentare di capire ciò che è successo nei dettagli e a tutti i livelli, spesso senza mettersi alla ricerca degli strumenti utili a capire la vicenda. Ciò rappresenta l’ennesima sconfitta della teoria critica nell’opinione pubblica.

La non pervenuta sospensione del giudizio

Ognuno ha detto la sua. Il critico d’arte Vittorio Sgarbi è arrivato ad invocare il processo per concorso esterno in terrorismo, basandosi sulla conversione all’Islam della ragazza, che ne farebbe ipso facto una terrorista. Di contro, La Stampa ha riferito che, a causa degli insulti ricevuti sui social, la Prefettura sta approvando un programma di protezione per Silvia Romano.

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Molti dei grandi nomi del giornalismo italiano non si sono troppo distinti e hanno messo in piedi dei teatrini sugli stessi temi su cui si è concentrata l’opinione pubblica: da una parte i soldi del riscatto, dall’altra la conversione all’Islam. Buoni punti di partenza critici per sollevare polveroni mediatici a colpi di post e tweet inutili per una vera analisi critica, la quale, dimostratasi di interessare a una piccola minoranza, è quasi assente nell’opinione pubblica. Invece della spietata e insensata tempesta di opinioni, questo sarebbe il momento per una saggia e lungimirante epoché (sospensione del giudizio) in attesa della ricostruzione fedele dei fatti, se avverrà (il pm ha aperto un’inchiesta per il reato di sequestro di persona a scopo terroristico, come riferisce Wired) e se ci sarà lecito saperla.

Nelle ultime ore è anche apparsa una foto di Silvia Romano con un giubbotto antiproiettile con sopra lo stemma della Turchia, che rivela controversie su chi si sia occupato della regia della negoziazione e della liberazione della cooperante internazionale, se l’Italia o la Turchia. Sembrerebbe comunque essere stata l’Italia, ad ogni modo la questione apre gli occhi e genera sviluppi su scenari di controversie geopolitiche preesistenti che fanno supporre essere la liberazione di Silvia Romano una operazione strategica in chiave politica.  

In questo scenario così complesso, è encomiabile l’onestà intellettuale di un filosofo italiano, Leonardo Caffo, che in un suo post di Facebook in cui racconta di essere stato contatto da una testata giornalistica per esprime la sua opinione sul caso Romano, ha affermato di non essere abbastanza informato sull’argomento, evidenziando il fatto che chi non sa deve tacere.

Un sentimentalismo insufficiente

Un conto è gioire per la liberazione di una persona rapita, un conto è capirne le cause e i dettagli. Finchè si osserva il fatto in sé attraverso le sole lenti dell’emotività e del sentimentalismo o della clemenza e umanità politica del nostro Stato, non ci resta che esser lieti. Ma per chi scrive c’è qualcos’altro da aggiungere alla discussione: come si può stare tranquilli senza conoscere a fondo ciò che è avvenuto?

Silvia Romano
Silvia Romano ANSA

Questo problema può essere ovviato solo in parte, in quanto esiste un gap irriducibile, e anche giusto, tra la quantità di informazioni che la cittadinanza può e deve ricevere, e ciò che invece deve rimanere segreto per questioni politiche, con buona pace della assoluta trasparenza dei meccanismi istituzionali su cui, secondo Norberto Bobbio, si fonda la democrazia. Così possiamo sapere che quella di pagare i riscatti è una strategia geopolitica dello Stato italiano, che lo differenzia dagli Stati che non scendono a patti con i terroristi. Possiamo sapere che esistono fondi preposti alla risoluzione di casi come quello di Silvia Romano. Tutto il resto, vale a dire le dinamiche, le ragioni e gli scopi del rapimento, i dettagli procedurali che lo hanno interessato ecc restano per ora avvolti nella segretezza. E forse lo resteranno per sempre.

Tra teorie e informazione

Ciò che sembra interessare l’opinione pubblica, puntualmente soddisfatta dalle testate gionalistiche, è fare chiarezza sulle questioni superficiali: la conversione all’Islam e quanto è costato allo Stato il pagamento del riscatto. La mancanza di trasparenza non fa che alimentare teorie viziate dal pregiudizio, illazioni, sospetti. La brama di dire qualcosa a tutti i costi ingenera la smania di sapere, che finisce per accontentarsi anche di avere qualche informazione sulle questioni più superficiali, credendo che esauriscano tutti gli interrogativi, anche quelli più pressanti, che vengono messi da parte o addirittura taciuti del tutto dai media dell’informazione stessi.

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Ad esempio, tentare di rispondere alla domanda circa le modalità in cui hanno operato le forze di intelligence esterna (l’Aise), di cui una ricostruzione sommaria è data da un articolo del Corriere della Sera, o a quella se il riscatto è stato richiesto per lanciare un guanto di sfida, per dimostrare una vittoria in una lotta di supremazia, o per ottenere visibilità mediatica internazionale e quindi per affermare la presenza e la forza di Al-Shabaab, o, banalmente, per lo scopo dell’organizzazione terroristica di ottenere un finanziamento economico.

Su quest’ultimo punto non è mancato l’accanimento pubblico, che ha portato a reazioni lapidarie come quella del giornalista Enrico Mentana e a considerazioni sulle cifre esorbitanti incassate dalla vendita di armi a Stati non democratici da parte dello Stato italiano, come quella svolta in un post di Facebook da Michela Murgia.

 


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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.