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Sul Corpo

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9 minuti di lettura

È il corpo dell’altro
a renderci integri?


Per lungo tempo ridotto ad appendice di un’interiorità poi uccisa dalla storia, il corpo è entrato nella mente dei filosofi da non più di 150 anni. Prima, eccezion fatta par qualche uscita straordinaria, di esso non si predicava altro che la necessità di liberarsene. Platone fu tra i primi a elaborare l’equazione che poi, in un modo o nell’altro, avrebbe condotto l’Occidente sin sulle soglie della modernità: la parte migliore dell’uomo è quella che rispecchia il divino, ovvero l’intelletto, l’anima, la coscienza che possa farsi tutt’uno con il mondo ideale, svincolato dalla materialità. La vista corporea non può che restare costretta a ciò che passa, a ciò che diviene, mentre è l’occhio intellettuale, libero di librarsi al di sopra degli oggetti, che coglie l’invisibile (reale) dietro il visibile. Il resto è terra, che vuol dire, per associazione semantica, bassezza, la cordicella che ci lega all’animalità. Compito del filosofo, sinonimo di liberazione, è uno soltanto: tagliarla.

Con un gesto che ha del prodigioso, circa 2000 anni dopo, Cartesio sistematizzava la profonda intuizione platonica, per servirla alla scienza come punto archimedeo sul quale si sarebbe dovuto fondare tutto l’impianto del nostro sapere. Posso dubitare delle mie mani, posso dubitare di essere fatto di pelle, di carne; qualcuno, qualcosa mi può ingannare, allucinandomi nell’incubo mostruoso di un’esistenza finora creduta reale. Unica certezza che si accompagna al mio dubitare è l’esistenza del dubbio stesso, ossia di un qualcuno, qualcosa che pensa. Indi per cui, sola cosa che da me non posso rimuovere: io penso, dunque sono cosa pensante. Tutto il resto, con matematica fede, ne sarà il derivato. Compreso il corpo.

Eppure Cartesio, se anche lui fu umano, dovette dubitare. Dovette in cuor suo sperimentare che ciò che professava non corrispondeva a quanto sentiva. Perché in fondo erano quelle stesse mani, quella stessa cera che si scioglieva tra di esse se avvicinata al calore del fuoco, la quale, proprio in virtù di questa sua mutevolezza, perdeva, agli occhi di Cartesio, di concretezza reale – era questa materialità che in lui generava il dubbio. Quello stesso dubbio che, qualche secolo più tardi, Friedrich Nietzsche avrebbe rovesciato: la ragione, la conoscenza, in qualsiasi sua forma, non è altro che la risposta di un istinto, un istinto corporeo. L’animalità, della quale l’uomo pareva essersi liberato sganciandosi dalla carne, poteva tornare a digrignare i denti e sbarrare il passaggio alla via dell’intelletto.

Il corpo, il nostro corpo, è come il punto focale che filtra ciò che la lente dell’esperienza lascia passare. L’altro, il corpo dell’altro, degli altri, è il primo contatto col mondo del quale la vita ci rende esperti. In questa doppia univocità, per la quale il mio corpo è sempre il corpo di qualcun altro, noi ricamiamo e diamo forma al nostro Io, a ciò che solo per derivazione carnale può dirsi intellettuale.

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Noi nasciamo staccandoci dal corpo delle madre, prendiamo la vita con la forza del respiro, che come un mantice gonfia gli organi, i motori, che d’ora in poi reggeranno l’esistenza. Allo stesso modo il primo, reale, contatto con il mondo, è corporale, mediato dalle mani. Il tatto è l’anticamera della conoscenza: la familiarità con il mondo non può che passare per il modo in cui, in un rapporto d’incrocio, il mondo stesso ci tocca e noi lo tocchiamo. È un chiasmo, nel quale ogni toccare è un essere toccati, ogni corpo chiede per risposta un corpo, quello dell’altro, al quale contrapporsi nel contatto. Non basta vedere, immaginare, cogliere nell’idealità di una forma; il pensare stesso è un rapporto di prossimità con la cosa pensata. Da qui la funzione prossemica delle nostre appendici, delle nostre mani, i nostri piedi, che ci collegano come linee e superfici al mondo. Siamo alberi rovesciati, le cui radici stanno in cielo; ma la terra rimane la fonte nel nostro nutrimento. Questo doppio rapporto, per cui ogni toccare è un essere toccati, per cui la coscienza del mio corpo implica in una sorta di ferrea necessità la coscienza del corpo dell’altro, genera quel sentimento ambiguo, misto di amore e repulsione, che ci lega al nostro corpo. Nonostante la vicinanza estrema, siamo noi i primi estranei a noi stessi.

In una bella pagina di Jean-Paul Sartre, questa ambiguità è descritta perfettamente. Quando ci guardiamo il dorso o il palmo della mano, proviamo come un brivido all’idea che tra i sette miliardi d’individui che abitano il mondo, nessuno condivida con noi la nostra stessa conformazione fisica. Nessuno possiede la stessa geografia venosa, la posizione delle nocche, l’articolazione delle dita – non c’è una mano che sia identica a quella che abbiamo sotto gli occhi. E questo non può che suscitare sgomento. L’unicità del nostro corpo ci rende estranei, di un’estraneità estrema, all’altro, chiunque esso sia. Ma è proprio attraverso il corpo, dice Sartre, che avviene la riconciliazione. Quando qualcuno (l’amato, l’amico, il fratello) posa la sua, di mano, sul nostro volto, ecco che il nostro corpo torna cosa conosciuta, torna familiare, ai nostri occhi. La carezza, la vicinanza indotta del corpo altrui, riappacifica il tremore generato da un corpo che pare non appartenerci.

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Il corpo vive di questa duplice esistenza: l’essere la dimora dell’intimità e, insieme, l’incarnazione della lontananza. Il sentimento che proviamo nel saperci nostri, nel sapere che queste mani, queste braccia, questo petto, appartengono a noi, trova la sua giustificazione solo se mediato dal corpo dell’altro, che ci assolve riconoscendoci. Lo specchio inganna quando ci mostra l’immagine che pensiamo sia la nostra. Jorge Luis Borges considerava gli specchi i suoi più grandi nemici. Aveva ragione: l’immagine riflessa introduce una crepa nell’identità corporale che crediamo possedere di noi stessi. Esso ci dice che non arriveremo mai a guardarci come pensavamo di essere.

Ma ciò è inevitabile. Lo specchio non è un corpo, non ha un corpo, essendo il pallido surrogato di una presenza carnale. È il corpo dell’altro, piuttosto, a renderci integri, a ricomporre la frattura che separa noi da noi stessi, accogliendoci nell’imperfezione di una materialità della quale non siamo, né mai saremo, padroni. È la mano che stringe ciò che lo sguardo non afferra, palpitante rumore di membra, insopportabile desiderio di liberarsi di ciò che ci rende umani, al di là di tutto il resto – il corpo che dunque sono.


In copertina: Artwork by Tatanka Journal
© Riproduzione riservata

 


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.