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Sulla solitudine

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9 minuti di lettura

E se la solitudine non fosse
necessariamente una condanna,
un castigo, una punizione?


O bestiale o divina. Così credeva Aristotele, almeno – che cioè la vita dell’uomo solitario non possa essere considerata, davvero, umana. La vita lontana dalla comunità non appartiene propriamente parlando agli uomini ma solo, appunto, alle bestie e agli déi. Secondo questa lettura la condivisione dell’esistenza è, dopo tutto, un peso, un’esigenza strutturale qualcosa di cui non ci si può liberare, come non ci si può liberare di una parte di noi stessi.

Noi, in fondo, non ci siamo allontanati troppo da come pensava Aristotele. La nostra vita è plasmata su quella degli altri. È socialmente quella degli altri, nel senso che nasciamo, cresciamo, invecchiamo lasciandoci imprimere lo stampo educativo di genitori, scuola, amici – di tutto quel grande Altro che si chiama società. Non è un caso che tra i bambini e adulti, la “punizione” sociale per non aver rispettato le regole della comunità sia l’esclusione, ossia, la solitudine. Possiamo spingerci a sostenere che la fede non sia altro che un grande rimedio contro questo male, la solitudine? Søren Kierkegaard pensava di sì: timore e tremore sono il segno della scelta individuale, fatta inevitabilmente in solitudine. Il rimedio è Dio, il resto è silenzio.

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Anche un pensatore come Martin Heidegger sosteneva che la solitudine rappresenti la condizione dell’autenticità. È difficile non connotare la parola “autenticità” in senso morale, anche se è ciò che voleva Heidegger. Traduciamo meglio: la solitudine è la condizione attraverso la quale ci si può riappropriare della vita. Questo perché in essa siamo rimessi all’angoscia della nostra, diceva lui, «gettatezza», lo spaesamento proprio di chi scopre che qualsiasi ragione per vivere non è altro che una maschera. E tolta la maschera, se ne trova un’altra.

È possibile un’altra strada? È possibile affrancarsi da quest’idea così, come dire, brutale di una solitudine angosciosa, alla quale si è costretti per una sorta di patto non sottoscritto? Bisognerebbe riconsiderare la solitudine da un’altra prospettiva, saperne leggere la benedizione, imparare non solo ad accettarla ma a volerla – come, d’altronde, provarono già a fare gli stoici.

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Il filosofo-imperatore Marco Aurelio si dedicava, come molti altri pensatori appartenenti alla corrente dello Stoicismo, a quell’irraggiungibile ricerca della serenità interiore che gli antichi chiamavano “saggezza”. Irraggiungibile per sua stessa costituzione, poiché saggio è anzitutto chi non è così arrogante da reputarsi padrone di se stesso. Così Marco Aurelio raccolse queste meditazioni sotto forma di una specie di diario in un testo che si è conservato fino a noi, dal titolo I pensieri (acquista). All’inizio del Libro Quarto, Marco Aurelio riflette sulla solitudine, e scrive:

«Si cercano un luogo di ritiro, campagne, lidi marini e monti; e anche tu sei solito desiderare fortemente un simile isolamento. Ma tutto questo è proprio di chi non ha la minima istruzione filosofica, visto che è possibile, in qualunque momento lo desideri, ritirarti in te stesso; perché un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o indisturbato della propria anima, soprattutto chi ha, dentro, principi tali che gli basta affondarvi lo sguardo per raggiungere subito il pieno benessere: e per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore».

In questo passo, Marco Aurelio rivolge un monito non solo a se stesso, ma all’umanità intera. Dice così: siete degli illusi se pensate di trovare la tranquillità da qualche parte fuori di vuoi. Là fuori nel mondo c’è solo caos, disordine, distruzione, ed è sciocco pensare di poter risolvere i problemi che ci si porta dentro cambiando il tetto sotto il quale si vive. È sciocco perché ci si condanna a inciampare, di nuovo, in ciò da cui si sfugge – ossia, appunto, di noi stessi.

È nell’animo, nell’interiorità, invece, che si trova la pace autentica. Il sostantivo che nel testo riportato è tradotto con “luogo di ritiro” e “isolamento” è anakoreseis, che indica il raccoglimento di chi si ritira, di chi si sottrae alla vita comune. E questa condizione di ritiro, che il saggio potrà praticare quando più lo riterrà opportuno, non è da confondersi con l’isolamento. Mentre l’isolamento è lo stato, la condizione, nella quale ci si trova isolandosi fisicamente, tagliando i ponti con l’umanità, rifugiandosi in campagna, al mare, sui monti, la solitudine non è, a ben vedere, lo stesso. La solitudine è un luogo edificato all’interno di noi stessi, al quale fare ritorno per riportare ordine nell’animo. Se guardiamo alla solitudine da questa prospettiva, considerandola cioè non come una disposizione dell’animo ma come un luogo di esso, ricaviamo una visione delle cose diversa. Spieghiamoci.

In altri luoghi del suo testo, l’immagine che Marco Aurelio utilizza per denotare l’interiorità è quella della cittadella. La cittadella è l’insediamento fortificato utile per difendere il cuore della città, il palazzo principale, la sede signorile. La sua funzione è semplice: proteggere, e per questo è fatta di mura e circondata da un fossato.

Ma quando il nemico non è fisico, quando dell’attacco non si sente che l’invisibile contraccolpo, quale cittadella può fungere da riparo? Ecco, è l’interiorità – o meglio, la solitudine che guadagniamo nel ripiegare dentro noi stessi. «Non uscire fuori, ritorna in te stesso, diceva Agostino, nell’uomo interiore abita la verità».

Per questo la solitudine, come la cittadella di Marco Aurelio, va considerata un luogo e non, piuttosto, uno stato. È un luogo al quale tornare come e quando si vuole, per rimettere ordine, per rimettersi in ordine. Bisogna esercitarsi, certo, a ritornare alla solitudine. Ed è faticoso. In fondo la cosa ha un sapore militaresco, se prendiamo sul serio la metafora bellica della cittadella. È una battaglia, una guerra, e come tale va affrontata. 

Eretta la cittadella interiore, rifugiarvisi non comporterà isolamento, no. La solitudine è quello spazio tra sé e sé nel quale, dopo lungo esercizio, si ritrova la certezza di un respiro sgombro da preoccupazioni, da inquietudini. Come salire in montagna per riempire i polmoni, e poi ridiscenderne, allo stesso modo la solitudine non rinnega la vita sociale, – si prepara ad essa, ci prepara ad essa. Ma se il è questo il luogo, la solitudine, al quale tornare, per tornare, in fondo, a noi stessi, allora Aristotele doveva sbagliarsi. In essa, noi non ridiventiamo né bestie, né dei, ma uomini.


In copertina: Artwork by Tatanka Journal
© Riproduzione riservata


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.