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«Toy Story 4», il capitolo più triste e bello della saga

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9 minuti di lettura

A nove anni dall’ultimo capitolo della fortunata trilogia Pixar tornano i giocattoli più famosi del cinema. Una nuova avventura la cui profondità rende nulli i numerosi dubbi accumulati sin dal suo primo annuncio. Woody, Buzz e amici sono dunque ancora tra noi, con una storia che rivendica la propria ragione d’esistere con un racconto tanto divertente e colorato, quanto triste e ragionato.

Toy Story 4

Toy Story 4: Woody, un giocattolo in difficoltà

Toy Story 4, il quarto capitolo della trilogia fattasi saga, ha inizio in flashback, ben nove anni prima dei fatti narrati. Piove, un giocattolo viene smarrito, Woody corre a salvarlo. Improvvisamente ci troviamo sotto una macchina parcheggiata, in quello stesso luogo dell’iconica scena del primo capitolo. Se lì però il cowboy invitava Buzz Lightyear a riconoscere se stesso («sei solo un giocattolo!») , qui, in un’atmosfera ancor più cupa, il giocattolo Bo Peep saluta Woody e se ne va per sempre. Scopriamo così, nella forma di un ricordo, forse l’unico fallimento del giocattolo di Andy.

Lui, il più umano di tutti, il più convinto del proprio posto nel mondo, aveva perso un membro del gruppo, e per una scelta di cui non capiva il senso. Nove anni dopo però le cose sono cambiate. Pochi mesi sono trascorsi dai fatti del terzo capitolo, Andy è cresciuto e i suoi giocattoli sono passati a Bonnie, una dolce bambina di cui Woody si prende cura, seppur lei non sia interessata più di tanto al cowboy. Ciò è causa di una condizione di sofferenza, disagio e solitudine, mostrataci con l’intelligenza di immagini contrastanti, da un lato cariche di colori e luci, dall’altro occupate da un protagonista in difficoltà.

Siamo felici infatti di ritrovarci tra quel gruppo di amici che abbiamo imparato ad amare, ma qualcosa non funziona, qualcosa nel sorriso di Woody inizia a spegnersi e l’arrivo di un nuovo giocattolo, il forchetto Forky, dà inizio ad un viaggio dalle conclusioni inaspettate.

Toy Story 4

Da Andy a Bonnie, o forse no

In Toy Story 4 è Woody dunque il vero protagonista della storia, la quale per la prima volta non si presenta come evoluzione corale di un gruppo di amici. Sembra così di tornare al primo capitolo, ma con uno sviluppo ancor più maturo. Perché il cowboy di pezza non ha ancora accettato il cambiamento. Sotto la suola dei suoi stivali c’è scritto Bonnie, ma il cuore legge ancora Andy.

Veniamo così catapultati in un parco divertimenti i cui colori vanno in contrasto con il volto incerto di Woody, il quale insegue l’ambiguo forchetto convinto di essere spazzatura e ignaro dell’importanza che riveste per la piccola Bonnie.

Toy Story 4

Toy Story 4: il più triste dei quattro?

Toy Story 4 squarcia i dubbi che giustamente si erano accumulati su di esso e si impone come riflessione puntuale sulla crescita, sull’identità, sul cambiamento. È infatti la storia di un eroe incompleto, fuori luogo, senza meta. È la storia di Woody, il giocattolo smarrito. Se però sino ad ora la saga aveva comunque sempre vacillato verso questa deriva, qui, nell’ultimo capitolo Pixar, il pericolo si fa realtà e il viaggio esterno di giocattoli dispersi si fa viaggio interno di oggetti confusi.

Il ribaltamento si fa notare quando alla nuova avventura si affiancano le precedenti, così ritmate da porre quest’ultimo capitolo sotto una luce di maggior introspezione. Nonostante i colori, nonostante il movimento, Toy Story 4 sembra un film lento, più attirato dagli interni semi bui del negozio di oggetti dimenticati che dal brillante parco divertimenti fuori da esso. La sfida dell’eroe non sembra nemmeno quella di fuggire dal negozio polveroso, quanto invece accettarne l’esistenza; farne una casa.

Woody, ridotto inizialmente a parodia, non sembra credere nemmeno più alla sua voce registrata, camminando a rilento con una prossemica che lo vede strisciare i piedi, farsi piccolo, darci le spalle, sentirsi vicino a quel cucchiaio di plastica che è più giocattolo dello stesso cowboy. I gruppi e le coppie a cui eravamo stati abituati qui si slegano, creano uno iato tra Woody e il resto dei giocattoli, sottolineando come la solitudine sia uno spazio vuoto che circonda i pensieri deliranti di chi non accetta il presente.

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Bo Peep, vero girl power

Il distacco evidente del giocattolo protagonista dallo storico gruppo è forse la principale fonte di malinconia per lo spettatore. Il duo Buzz e Woody è ridotto all’incomunicabilità, con lo space ranger che tenta in ogni modo di scoprire, invano, i sentimenti dell’amico. Ciò si riversa inevitabilmente sul resto dei compagni, i quali appaiono spettatori inermi di questo cambiamento. Giungono però a sostegno del racconto nuovi personaggi, tra cui spicca la dispersa e ritrovata Bo Peep, ora giocattolo indipendente ed emancipato. La sua forza le permette di farsi carico della condizione di Woody, sostituendolo saltuariamente come personaggio attivo e agendo da motore dell’azione.

È in lei che si fa ovvio un tentativo, riuscito, di incentrare l’intreccio degli eventi sulle scelte di donne, bambine, ragazze. La Pixar riesce così a far proprio lo spirito del tempo, sfruttando i personaggi in maniera naturale e credibile per porre in scena una storia il cui rapporto tra maschile e femminile si scardina dal semplice love interest, ossia da una relazione fondata esclusivamente sull’interesse amoroso di un personaggio maschile nei confronti di uno femminile. Anzi, le funzioni cardinali della vicenda si realizzano proprio nella scelta o nella presa a modello di Bo Peep, leader dei giocattoli dispersi e, si spera, esempio futuro per la costruzione di personaggi altrettanto funzionali, sfaccettati e moderni.

L’ultimo, splendido, capitolo Pixar è dunque un difficile percorso di accettazione, stravolto però nelle sue conclusioni. Se infatti il terzo capitolo ci aveva mostrato le possibilità di chiamare casa anche un luogo nuovo e sconosciuto, l’ultima storia concede la libertà del rifiuto, la possibilità di bloccare la canonicità della narrazione e di disattenderne le aspettative. Woody è così la chiusura della saga, ma anche il suo rinnovatore. Perché lì dove si presenta l’occasione per semplici conclusioni, si immette il suo lato umano, il suo corpo abbattuto, che rimette in discussione gli obblighi di accettazione e lascia all’eroe la forza di cambiare strada. È dunque doloroso, è dunque fuori tono, ma se la trilogia ci ha insegnato che ci sarà sempre «un amico in me», la sua conclusione ci concede la possibilità di lasciarlo andare.

 

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Alessandro Cavaggioni

Appassionato di storie e parole. Amo il Cinema, da solo e in compagnia, amo il silenzio dopo una proiezione e la confusione di parole che esplode da lì a poche ore.
Un paio d'anni fa ho plasmato un altro me, "Il Paroliere matto". Una realtà di Caos in cui mi tuffo ogni qual volta io voglia esprimere qualcosa, sempre con più domande che risposte. Uno pseudonimo divenuto anche canale YouTube e pagina instagram.

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