La retorica delle “donne forti” ha illuso a lungo che in alcuni scenari storici le popolazioni fossero andate vicine al ribaltamento del patriarcato: bastano un paio di regine tra mille re in una dinastia, o una donna presidente del consiglio, per far gridare all’uguaglianza raggiunta e a far chiudere l’agenda della parità a molti (che non aspettavano altro). Sui libri di storia troviamo la pagina dedicata alle donne in una certa epoca, approfondimenti sulla straordinarietà di questa e di quella donna di potere, capaci di farsi largo tra gli uomini. Ma non è tutto oro quel che luccica, perché il tema del femminismo e della lotta per i diritti delle donne è complesso e stratificato, e come tutti i fenomeni storici non ha avuto un percorso lineare.
A una riflessione attenta ci possiamo rendere conto che i ragionamenti che basano tutto sull’idea di “donna forte” al potere senza approfondimento critico portano fuori rotta l’idea stessa di femminismo, oltre a fornire uno strumento retorico agli oppositori della vera parità: non basta un’imperatrice a distruggere il patriarcato.
Nel corso della storia, molte donne hanno ricoperto ruoli di potere, ma spesso questi ruoli erano più simbolici che rappresentativi del vero cambiamento di mentalità collettivo previsto tuttora dalla lotta femminista: il loro potere si muoveva sempre e comunque all’interno di strutture patriarcali, che esse stesse andavano a rafforzare in quanto sistema che le favoriva individualmente – quindi non necessariamente come donne.
Molte regine hanno ottenuto il potere tramite la successione ereditaria, il che significa che la loro ascesa al trono era legata a fattori familiari più che a meriti o a una lotta per i diritti. Ciò implica che il potere femminile non era sempre il risultato di ciò che oggi chiamiamo progresso, ma di una risposta a necessità dinastiche e politiche di quel preciso momento storico. In questo senso, la successione ereditaria può perpetuare il patriarcato, più che sfidarlo.
Legato a questo è il fatto che quando le donne raggiungono posizioni di potere, le loro politiche non sempre includono o sostengono attivamente i diritti delle donne. Per quanto gli esempi abbondino anche oggi, pensiamo a una delle celebri sovrane del passato, come Caterina la Grande. La ricordiamo come una zarina illuminata, che portò avanti riforme capaci di modernizzare la Russia, ma che raramente affrontavano le questioni legate all’emancipazione femminile. Le sue politiche erano indirizzate al rafforzamento dello stato e all’avanzamento tecnologico della nazione, piuttosto che al miglioramento della condizione delle donne. E conoscendo la situazione nella Russia del Settecento forse è anche difficile biasimarla. Non possiamo trascurare nemmeno la regina Vittoria, che nell’Inghilterra del XIX secolo si opponeva esplicitamente al suffragio femminile. Sempre in Inghilterra Elisabetta I rinunciò alla vita coniugale per dirsi sposata alla nazione, caricando di peso simbolico la purezza e la verginità.
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Possiamo biasimarle? Le regine e le donne al potere operavano in un contesto sociale che manteneva un certo tipo di aspettative – e quindi di pressioni – riguardo ai ruoli femminili. Anche se alcune di loro riuscivano a infrangere queste aspettative, spesso lo facevano in modi che non minacciavano l’ordine sociale esistente e finivano quindi per essere emarginate in modi diversi, passando alla storia come “streghe”, “pazze”, “sanguinarie”, anche se si comportavano esattamente come i loro contemporanei uomini. Il loro potere era limitato dalle norme culturali e sociali che continuavano a relegarle in posizioni subordinate, in un modo solo apparentemente paradossale.
La presenza di donne al potere non equivale automaticamente a una maggiore rappresentanza delle donne nella società. Molte regine governavano in modo autoritario, senza coinvolgere altre donne nei processi decisionali o nelle politiche pubbliche. Di conseguenza, è lecito chiedersi quanto realmente queste sovrane abbiano contribuito al miglioramento delle condizioni per tutte le donne, e non solo per una ristretta élite di donne altrettanto potenti e desiderose di tutelare il sistema.
Un altro aspetto che limita l’interpretazione delle regine come simboli di emancipazione femminile è il loro ruolo in una società che non aveva mai realmente abbandonato il patriarcato. In molte monarchie, figure come le reggenti svolgevano un ruolo cruciale, ma la loro autorità era sempre subordinata alla presenza di un uomo come erede al trono, e spesso direttamente ignorata proprio per il fatto di essere donne, a favore di consiglieri e funzionari uomini.
La presenza di regine e donne al potere nel passato non è indicativa di un avanzamento per i diritti delle donne. Sebbene queste donne abbiano avuto un impatto significativo nelle loro epoche, la loro esperienza non rappresenta una vittoria per il femminismo. Le loro azioni non sfidavano le gerarchie di genere, al più le adattavano alle circostanze del loro tempo, senza aprire spiragli di progresso. L’emancipazione femminile, quella vera, è una conquista che non si può ridurre alla sola presenza di donne al potere. Non sono esempi di lotta per l’emancipazione femminile, ma figure che hanno operato all’interno di un sistema che vedeva la donna come un’eccezione, ma non come un membro alla pari della società. Il potere di queste sovrane, per quanto straordinario, non implicava un’autentica liberazione per le donne, ma la conservazione della solita, vecchia violenza.

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