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Van Gogh, arte nella vita e vita nell’arte

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Tormentato, eccentrico, folle, visionario e geniale. Questi aggettivi racchiudono e contemplano totalmente quello che l’artista olandese Vincent Van Gogh (1853-1890) rappresenta. Il suo essere, la sua vita e il suo dolore sono ben rappresentati nei suoi quadri, che non ritraggono la realtà, ma è la realtà che diventa rappresentazione del mondo interiore del pittore, in un magico insieme.

Un viaggio dalla terra al cielo

Il suo vissuto è stato breve, tortuoso il suo cammino, molto simile ad un pellegrinaggio verso una meta sconosciuta. Egli stesso scrive: «Noi siamo dei pellegrini, la nostra vita è un lungo cammino, un viaggio dalla terra al cielo». Un viaggio in salita quello di van Gogh, che ama la vita, ha il coraggio di meravigliarsi e commuoversi davanti alla semplice e ammaliante bellezza della semplicità.

Ed, effettivamente, lui stesso ha attraversato, percorso a passi lenti, talvolta incerti, altre volte spediti, molti posti. È Parigi a segnarlo particolarmente, è qui che sceglie di dedicare la sua esistenza alla pittura. È qui che conosce pittori come Monet, Degas, Renoir, Toulouse-Lautrec, che gli apriranno un mondo che Vincent non aveva ancora mai esplorato.

Van Gogh viene considerato il pioniere dell’Espressionismo, ha realizzato ben 864 tele e la sua vita si presenta come un romanzo avvincente.

La sua esistenza come un romanzo ben scritto

È stata proprio la sua esistenza sempre così in bilico, così romanzata a condurre molti registi a creare dei film proprio sulla vita visionaria del pittore olandese. L’ultimo è stato, nel 2018, il film Van Gogh – sulla soglia dell’eternità, di Julian Schnabel, che riprende e dà vita ai colori dei quadri di van Gogh: il giallo del grano, dei girasoli, delle estati torbide; l’azzurro del cielo e dei suoi occhi smarriti; il rosso dei papaveri, colori accesi e luminosi; ma anche il blu della confusione, della notte e dello sgomento, del caos e della dura legge del mercato che lo rifiuta.

Altro film che merita di essere citato è Vincent e Theo, del 1990 di Robert Altman, con un eccezionale Tim Roth nei panni dell’artista olandese. Questo film si concentra su una delle figure fondamentali, portanti, nella vita del pittore: il fratello Theo. Fu lui ad aiutarlo economicamente durante tutta la sua vita (si narra che Van Gogh, in vita, abbia venduto un solo quadro). Ma fondamentali sono le lettere, circa 600, che Vincent e Theo si sono scambiati tra il 1872 e il 1890. In esse si delinea chiaramente sia la vulnerabilità psichica di Vincent e i suoi tormenti, sia la sua concezione artistica. Il malessere psichico di van Gogh non ha un nome, o meglio, non si conosce precisamente quale malattia affliggesse il pittore. Ciò che si sa è che soffriva di attacchi di panico e allucinazioni che gli causavano atti violenti e istinti suicidi, a cui seguivano stati di totale abbandono. A ciò si aggiungeva anche la predilezione di van Gogh per l’alcol, in particolare per l’assenzio. 

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Pur essendo stato appassionato di disegno sin dalla più tenera età, è intorno ai 30 anni che decide di dedicarsi totalmente alla pittura.

L’amore per gli ultimi

Nel 1879, van Gogh si recò nelle regioni minerarie del Belgio per prendersi cura delle persone più fragili, i malati e i minatori. Decise di vivere come loro, dividendo con loro miseri pasti intorno ad un tavolo, alla tenue luce di una lampada. Nasce da quest’immagine una delle sue opere più conosciute, I mangiatori di patate.

«Uno può avere un focolare ardente nell’anima e tuttavia nessuno viene mai a sedervisi accanto. I passanti vedono solo un filo di fumo che si alza dal camino e continuano per la loro strada».

Vicent e l’arte giapponese

Nel 1885 vi è una parentesi nella vita pittorica di van Gogh che scopre, s’interessa e approfondisce la cultura e l’arte giapponese. Camminando per strada s’imbatte casualmente in una stampa giapponese e ne viene rapito. Viene catturato dalle figure femminili nipponiche, i giardini, i rami fioriti. Fu così che si appassionò  a pittori giapponesi come Hiroshige e decide di riprende alcune sue opere per reinterpretarle secondo la propria sensibilità. È il caso del Ponte sotto la pioggia.

Il fatto che van Gogh non mirasse a creare copie fedeli degli originali giapponesi traspare anche dal Susino in fiore, un’altra japonaiserie realizzata a partire da un’altra stampa di Hiroshige e Giardino di Kameido, del 1857. Le tonalità tenui di rosa che il maestro giapponese aveva utilizzato per il cielo vengono trasformate in un rosso denso e forte da van Gogh, che utilizzò colori decisamente più vividi rispetto a quelli delle stampe giapponesi. Fece inoltre uso del nero e del contorno con l’obiettivo di creare effetti di contrasto tra gli elementi delle sue composizioni.

«Dopo un po’ di tempo la tua visione cambia, vedi con un occhio più giapponese, senti il colore in modo diverso. Sono anche convinto che sarà proprio attraverso una lunga permanenza qui [ad Arles] che potrò esprimere la mia personalità»

I soggetti prediletti da van Gogh

Questa parentesi a parte, fatta di curiosità e ammirazione, lascia presto il posto ai soggetti prediletti da van Gogh, ossia gli ultimi, i dimenticati (come i protagonisti del sopra citato Mangiatori di patate), i minatori e i lavoratori dei campi, a cui si aggiungono i numerosi autoritratti ma anche la natura viva, luminosa, i cipressi, i campi di grano e i girasoli, l’immagine emblema del pittore.

Le sue opere più conosciute, tuttavia,  sono quelle create pochi anni prima di morire, tra il 1888 e il 1890.

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L’opera più importante, enigmatica, struggente, misteriosa di van Gogh è la Notte Stellata, opera realizzata nel 1889. La potenza di questo quadro travolge l’osservatore che, il più delle volte, prova sgomento, viene turbato dai colori che conducono nel turbinio del vento che scuote l’aria, le stelle e il cipresso. Vi è quasi un preannuncio, un’attesa di qualcosa che sta per accadere, qualcosa che può essere bellissimo o terribile. Vi è questa incertezza che scuote e toglie il fiato. Nella parte bassa del dipinto, la città che ignara dorme. A destra, sotto la luce della luna che sa e osserva, vi sono i tetti violacei. A sinistra, il cipresso che oscilla, vibra come una fiamma. Il cielo è maestoso si muove tra le gradazioni del cobalto, dell’azzurro abitato dalle stelle, che rassicurano e donano speranza. È un quadro che accoglie la vita, la natura solitaria, l’abbraccia e la culla. Vi è silenzio e forza in questo quadro, in queste pennellate fisiche e mentali.

Van Gogh era rapito dalla notte, come scrive in una lettera al fratello Theo: «Spesso ho l’impressione che la notte sia molto più viva e riccamente colorata del giorno».

In tutto questo andare continuo che è la vita del pittore si colloca l’esperienza in Provenza, un piccolo paradiso di pace per Vincent, che resta ammaliato da tutta quella bellezza, al punto tale da pensare che non esiste altro posto al mondo in cui vivere, lavorare e combattere definitivamente la solitudine. È qui che immagina una casa in cui vivere e dipingere, avere degli amici, giardino e alberi da frutta anche all’interno, dipinti sulle pareti. È così che nasce il suo dipinto La casa gialla, vicino alla stazione di Arles, da dove van Gogh dipinge la sua camera da letto e la Notte stellata sul Rodano.

È qui che sviluppa una tecnica pittorica che lo contraddistingue: pennellate divise e accostamenti di colore contrastanti. Il pennello viene spesso sostituito da una spatola che pone sulla tela una grande quantità di colore, lasciando spesso grumi con pennellate vorticose.

È in questa casa che vive felicemente alcuni mesi con il suo amico Paul Gauguin. Ma la serenità dura poco. I due hanno caratteri diversi, modi d’intendere la vita differenti. A ferire Vincent è l’aver scoperto che l’idillio non era destinato a durare, per Gauguin la casa gialla era solo una tappa del suo percorso. Ne nasce una lite violenta, Vincent in preda alle allucinazioni si mozzò con un rasoio metà dell’orecchio sinistro. Qualche giorno dopo, van Gogh si ritrasse con un’ampia fasciatura a coprire l’orecchio mutilato.

Fu quest’ultimo episodio a spingerlo a ricoverarsi in un ospedale psichiatrico. In questo periodo di tranquillità e protezione vissuto tra le quattro mura dell’ospedale, con una finestra sul mondo, poté ritrovare il suo equilibrio e la sua serenità.

L’ultimo van Gogh

La salute e l’equilibrio che Vincent van Gogh sembra aver ritrovato lo spingono a trasferirsi nuovamente una volta terminata la sua esperienza nell’ospedale. L’ultima tappa del suo viaggio è Auvers-sur-Oise, vicino Parigi, dove trova una nuova casa e nuovi paesaggi, prati, campi. Fino all’ultimo, nel mese di luglio del 1890, quando, dopo aver dipinto un campo di grano attraversato da tre sentieri e un cielo agitato con un volo di corvi mette fine alla sua vita con un colpo di pistola.

«Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali».

Era un animo sensibile van Gogh, forse per questo destinato alla sofferenza. Vedeva e sentiva come il resto della gente non può. È stato un dono per tutti noi la sua delicatezza d’animo, i suoi dipinti sono un immergersi nella vita contemplativa, un entrare in contatto con la natura fuori di noi e il mondo dentro di noi. Per questo dovremo per sempre ringraziare l’artista Vincent Willem van Gogh. Ma, forse, dovremmo scusarci con l’uomo che era.

Come lui, anche oggi tante anime sensibili, pure, vere non vengono comprese, sono derise, umiliate, calpestate. Van Gogh potrebbe essere un ultimo dei giorni nostri. Magari vittima di un odio ed una violenza dilagante, asfissiante. Dovremmo godere dell’arte, di quello che essa trasmette e rinascere da essa più grandi, migliori, più umani. Forse era questa la missione di questo grande pittore.

D’altronde come lo stesso Van Gogh diceva:

«Se oggi non valgo nulla, non varrò nulla nemmeno domani; ma se domani scoprono in me dei valori, vuole dire che li posseggo anche oggi. Poiché il grano è grano, anche se la gente dapprima lo prende per erba».

Elena Lanzilotti

 


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