Alla ricerca delle grandi storie d’amore
«Erano altri tempi». Tutti hanno sentito dire almeno una volta nella loro vita questa frase, probabilmente da una nonna saggia o uno zio lontano. Parlano di relazioni, parlano di incontri, parlano dei modi di relazionarsi con gli incontri.
Nessuno di loro ha mai scaricato un’app di dating, nessuno di loro ha mai dovuto pensare a quali foto selezionare per sembrare simpatici, allo stesso tempo sessualmente appetibili, contemporaneamente intriganti. Nessuno di loro ha mai passato ore a scorrere profili di altra gente pensando a quale ruolo avrebbero potuto avere nella loro vita, se fossero abbastanza attraenti, a vedere cosa cercavano da una persona prima ancora di conoscerla.
Se oggi si chiede a una coppia come si sono conosciuti, probabilmente risponderanno con Tinder o Hinge, o forse mentiranno esponendo una storia perfettamente concordata per evitare la vergogna di essersi effettivamente conosciuti online.
Ma se dire di essersi incontrati su un’app di dating provoca vergogna e imbarazzo, perché queste app sono comunque così diffuse?
Chi cerca trova, ma cosa?
Bisogna fare però un passo indietro. Tinder è arrivato in Italia nel 2012, cambiando le carte in regola di allora. Prima, infatti, esistevano i siti d’incontri, ma erano visti come siti per cuori solitari e tendenzialmente incapaci di avere interazioni dal vivo. C’era l’idea che si trattasse di siti per persone dalla scarsa vita sociale che rifuggivano online per illudersi di avere una chance di trovare l’amore attraverso uno schermo.
Inizialmente se ci si trovava su Tinder non se ne parlava, era qualcosa da dire solo agli amici più stretti. Al contrario dei siti d’incontri come Meetic che proponevano di trovare l’anima gemella, l’altra metà della mela, Tinder è sempre stato chiaro su cosa offriva ai suoi utenti: le famose one-night stand, le cosiddette “botte e via”, una consolazione temporanea per una solitudine diffusa. Il problema non è ciò che offriva, perché finché si è consci non ci si può illudere; il problema forse è che gli utenti, nel loro intimo, non ammettevano di essere estremamente soli.
Le one night stand con degli sconosciuti trovati su un’app scorrendo semplicemente un pollice mentre probabilmente si era annoiati sul letto possono davvero alleggerire il peso di un vuoto che nessuno vuole riconoscere ma da cui tutti sono appesantiti?
Di cosa ci riempiamo veramente stando sulle app?
Perché a volte davvero ci si conosce, ci si incontra, e si decide di stare insieme, eppure nella maggior parte dei casi le app sono solo una ricerca spasmodica di conferme passeggere. E non a caso ci si ricorda sempre con un sorriso più largo un complimento inaspettato da uno sconosciuto ad una festa che i mille like su Hinge.
«Erano altri tempi». Ma se se ne è consapevoli, perché non ricercare quell’autenticità che si è andata perdendo tra uno swipe e l’altro?
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Tutti terapeuti ma nessuno in terapia
Bisogna essere onesti: l’idea che il match perfetto sia sempre dietro l’angolo, alla portata di mano, senza neanche doversi alzare dal divano, è allettante. Ma da quando la pigrizia porta a risultati? Secoli di storie di coraggio, di intraprendenza, di lotte per amore, per arrivare ad aspettare seduti che un magico algoritmo programmato semplicemente per farci passare più tempo sull’app e quindi, verosimilmente, non trovare l’amore, ci dia le risposte. E in fondo, c’è forse qualcosa che l’essere umano cerca di più?
Ma le dating apps non sono delle sedute di terapia; chi cerca risposte, chi si pone delle domande, meglio che cerchi altrove. Hinge o Tinder non risolveranno i problemi di autostima, la paura di restare da soli, il terrore delle interazioni sociali. Anzi, è stato dimostrato che gli utenti assidui delle app sono più ansiosi e più inclini a soffrire di depressione.
Chi cerca gratificazione, si mette a scodinzolare per un match. Chi vuole una pausa dal mondo, scrolla il feed all’inverosimile. Chi si sente solo e senza speranze, si sorprende dell’offerta infinita di possibili partner. Chi ama flirtare senza mai arrivare al dunque trova pane per i suoi denti, e un pane anche molto gustoso.
Chi si ricorda dei date ai tempi di How I Met Your Mother e Friends dovrebbe sapere che le dating apps tendono ad amplificare i problemi dei date offline. Un processo estenuante di scelta, un alto tasso di rifiuto, una sovrabbondanza di opzioni, la morte dell’attrazione, delle farfalle nello stomaco, della chimica della pelle e degli sguardi.
Sempre più gente è estenuata dai ritmi delle app di dating: ghosting, breadcrumbing, connessioni superficiali, ore perse dietro la ricerca dello swipe migliore. Chissà quante persone si sarebbero potute conoscere se invece che stare chiusi in casa dietro uno schermo fossero andate al bar dell’angolo di venerdì sera.
La versione migliore di noi stessi non la conosciamo neanche noi
E forse lì non ci si dovrebbe preoccupare di essere la preda sessuale più intrigante (ma forse ha un blocco emotivo che non le permette di avere rapporti), il ragazzo in forma ma non fissato con la palestra (che però forse è stato vittima di bullismo e nessuno lo saprà mai), l’uomo misterioso che risponde dopo ore (perché in realtà non sa cosa dire e ha paura di commettere un passo falso).
Le dating app ci chiedono di essere la versione migliore di noi stessi, senza l’impegno di doverlo essere ventiquattro ore su ventiquattro, ma chissà che liberazione sarebbe capire che forse, neanche dal vivo bisogna essere iper performanti. Che le persone non sono prodotti e l’amore non è un algoritmo. Che vale ancora la pena scambiarsi una stretta di mano, un sorriso e pensare «quella persona mi attrae». E poi parlarci e credere «non fa per me», o forse al contrario dire «è l’uomo della mia vita».
A chi ancora è diffidente, bisogna dire che il corpo non mente mai. Ma finché ci si sottrae alla propria corporeità nascondendosi dietro uno schermo non si potrà mai sapere quale sia la sua verità.
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