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Diseguaglianza:
il rapporto di Oxfam

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huffingtonpost.it
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Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, iniziato Mercoledì 20 gennaio, l’ong Oxfam ha pubblicato il rapporto Working for the few (testo integrale qui), che evidenza come la progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani di una èlite mondiale prosegua incontrastata e metta in pericolo la tenuta delle istituzioni democratiche degli Stati di tutto il Mondo. Si tratta di una tendenza, iniziata a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, comune sia ai Paesi ricchi che a quelli in via di sviluppo: prendendo ad esempio i dati statistici di due Paesi particolarmente esemplificativi delle due categorie, Stati Uniti da una parte ed India dall’altra, si nota come nei primi il reddito dell’1% della popolazione sia ai livelli più elevati dalla Grande Depressione ad oggi, come nella seconda il numero di miliardari sia aumentato di addirittura dieci volte negli ultimi dieci anni, mentre il Paese è tra gli ultimi del mondo nel garantire l’accesso globale a un’alimentazione sana e nutriente.

Su scala mondiale, il divario di ricchezza assume dimensioni estreme: nel 2016, 62 persone detengono la stessa ricchezza della metà della popolazione mondiale. Dal 2010 3,6 miliardi di persone – la metà della popolazione globale – ha visto ridursi la propria quota di ricchezza di 1000 miliardi di dollari, mentre l’aristocrazia dei 62 super-ricchi ha registrato un aumento di oltre 500 miliardi. Il divario, ricorda Oxfam, è cresciuto esponenzialmente nell’ultimo anno, tanto che «si sono avverate con un anno di anticipo le previsioni secondo le quali l’1% della popolazione mondiale avrebbe posseduto più del restante 99% entro il 2016».

Si tratta di una questione che non riguarda soltanto l’aspetto economico, ma soprattutto quello politico: «Il rapporto dimostra, con esempi e dati provenienti da molti paesi, che viviamo in un mondo nel quale le élite che detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole», afferma Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International. «Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli». Il rapporto Working for the few mostra, ad esempio, come sin dai primi anni Ottanta la tassazione per i più ricchi sia diminuita progressivamente in 29 paesi dei 30 per i quali sono disponibili dati: fino alla situazione paradossale per cui in molti Paesi i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano anche meno tasse.

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La nascita di una nuova aristocrazia mondiale è il frutto avvelenato della rivoluzione neo-liberale iniziata nel mondo anglo-sassone con l’elezione di Margareth Thatcher a Primo Ministro britannico (1980) e di Ronald Reagan a Presidente degli Stati Uniti (1981): misure quali la dismissione degli apparati pubblici di welfare, la privatizzazione di settori-chiave come trasporto istruzione e sanità, la riduzione progressiva delle tasse sui redditi alti e sui grandi capitali, la deregolamentazione della finanza sono divenute indirizzo politico di riferimento della classe dirigente occidentale (sia “di sinistra” che “di destra”, categorie che hanno finito per perdere valore relativamente alla posizione tenuta dalle forze politiche nei confronti del sistema economico), e sono le cause alla base della globalizzazione oligarchica a libero mercato che ha premiato i ceti sociali benestanti e rallentato fortemente i processi di mobilità sociale, ricreando la medievale equazione “ricchezza = potere”: un panorama socio-economico in cui le famiglie dei ceti più ricchi hanno a disposizione scuole e Università private di alta qualità e ad alto costo a cui iscrivere i propri figli, per far loro maturare le migliori competenze e inserirli nel mondo di “alti” rapporti che molte Università hanno con istituzioni governative e grandi imprese, sì da garantirgli posizioni lavorative tendenzialmente più elevate e più retribuite; in cui i flussi di ricchezza tendono ad accentrarsi nei grandi agglomerati urbani, lasciando le periferie a se stesse e diminuendo la qualità di vita degli abitanti, aumentando le differenze socio-economiche tra i territori; in cui si è creata una spaccatura profonda, a livello di accessibilità e di qualità, tra i servizi erogati dall’elitario sistema privato e il “popolare” apparato pubblico.

Zygmunt Bauman è il pensatore che maggiormente ha approfondito la questione: la civiltà umana, per la prima volta “globale” perché il mondo è ormai totalmente interconnesso, è entrata in una nuova fase storica definibile come “Post Democrazia”, in cui i sistemi democratici hanno assunto un assetto fortemente oligarchico (i grandi capitali privati influiscono sulle istituzioni rappresentative e governative) e si è creata una nuova forma di diseguaglianza “antropologica” tra i nuovi dominanti, che riescono a essere presenti e comandare in-absentia ed hanno pieno accesso a quella risorsa elitaria che è la mobilità nel mondo globalizzato (in termini relazionali, culturali, economici), ed i nuovi servi della gleba, ovvero tutti coloro che sono materialmente e culturalmente legati al proprio luogo di nascita (per motivi linguistici, economici, culturali, eccetera).

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L’Italia non fa eccezione: nel nostro Paese la disparità di reddito e ricchezza netta è impressionante, con l’1% più ricco che detiene il 23,4% della ricchezza nazionale netta, una quota che in valori assoluti è pari a 39 volte la ricchezza del 20% più povero. Durante gli ultimi 5 anni di crisi, oltre la metà dell’aumento di ricchezza è andato a beneficio del 10% più ricco, lasciando le briciole al resto della popolazione italiana, con differenze strutturali tra centro-nord e Meridione.

Sono dati disarmanti che fotografano un inquietante panorama di estrema disuguaglianza. Soluzioni politiche reali e concretamente applicabili nel brevissimo periodo mancano, perché mancano innanzitutto la sensibilità pubblica sul problema, una classe dirigente che sensibilizza la popolazione e la conseguente volontà politica di aggredirlo.

Il neo-liberismo è nato nel mondo anglosassone e da lì si è diffuso in tutto l’Occidente, ma finalmente in USA e Gran Bretagna stanno emergendo personalità (da Bernie Sanders a Jeremy Corbyn) che spingono per una profonda rivoluzione del sistema economico. In Europa il Partito Socialista Europeo contiene differenti anime politiche ed è diviso sulla questione della necessità di operare una riforma radicale del sistema economico-istituzionale, e la grande alleanza con il Partito Popolare Europeo ha causato la nascita di partiti di sinistra radicale, come Syriza e Podemos.

In Italia si assiste invece a una dinamica opposta: l’ex principale partito della sinistra italiana, il Partito Democratico, è stato scalato da un leader e da una classe politica che vuole importare in Italia il modello anglosassone e tutto ciò che ne consegue: privatizzazioni, meritocrazia a pagamento, sistema di partiti al soldo dei grandi capitali, apertura indiscriminata al libero mercato ed alle multinazionali.Non si sa se sia più una speranza o una sensata aspettativa nei confronti del futuro, ma questa classe dirigente e questo periodo storico dovranno pur passare il testimone ad una nuova sinistra, finalmente consapevole della sua missione storica: ridurre le diseguaglianze, economiche e sociali, a livello sia di Stati che di Mondo.

Nel frattempo – condizione necessaria – occorre parlare il più possibile della drammatica questione della diseguaglianza. Dalla sensibilizzazione collettiva deriverà una nuova domanda sociale, dalla domanda sociale una nuova cultura politica, da questa una nuova classe dirigente. Bisogna pur provarci.

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Niccolò Biondi

25 anni, laureato in Filosofia, attualmente studia Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Firenze, città in cui abita.

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