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Due governi e mezzo in Libia:
a che punto siamo?

6 minuti di lettura

Sono giorni carichi di tensione per l’altra sponda del Mediterraneo. In Libia, considerata da molti uno “Stato finito”, divisa più che mai tra fazioni che non sembrano avere alcuna intenzione di raggiungere accordi, qualcosa si muove: il premier del Governo di Unità Nazionale Fayez al-Sarraj è sbarcato a Tripoli il 30 marzo scorso insieme a sette dei suoi ministri; due giorni dopo Khalifa Ghwell, leader del governo mai riconosciuto di Tripoli, ha lasciato la capitale per rifugiarsi nella roccaforte di Misurata, per fare ritorno pochi giorni dopo forte della protezione delle sue milizie. E così il numero dei governi in Libia sale a tre: uno mai riconosciuto, uno “ufficiale” ma nato in territorio tunisino e uno che si sta rapidamente alienando le simpatie di chi fino a poco tempo fa lo sosteneva.

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Fayez al-Serraj. Fethi Belaid, Afp

Come si è arrivati a questa situazione? Conviene fare un passo indietro e partire dall’ottobre del 2015. A quella data la Libia era nettamente divisa nelle sue tradizionali tre regioni: la Cirenaica, la Tripolitana e il Fezzan.

LA LIBIA DIVISA

In Cirenaica, la parte est del Paese, dominava il governo riconosciuto a livello internazionale, eletto regolarmente, sebbene con una scarsissima affluenza, durante le votazioni nel giugno 2014. Il leader di tale governo era ed è tutt’ora Abdullah al-Thinni, che godeva dell’importante sostegno di Khalifa Haftar. Ex-braccio destro di Gheddafi, il “generale ribelle” controllava le milizie della Cirenaica, che impegnava nel suo obiettivo primario: fare piazza pulita delle milizie jihadiste e dei Fratelli Musulmani. A questo scopo, che condivide con l’alleato e sostenitore (economico) al-Sisi, Haftar ha consacrato l’Operazione Dignità, una sorta di “riordino” militare partito da Bengasi. Al-Thinni e Haftar si sono divisi, anche fisicamente, il potere: mentre il governo ha sede ad al-Bayda, il parlamento (la Camera dei rappresentanti) è fisso nella vicina Tobruk.

Dopo la partenza del governo legittimo, a Tripoli si è installata Alba Libica, un’alleanza composita che comprende milizie della città di Misurata, forze islamiste, ex-oppositori del regime gheddafiano e gruppi della minoranza Imazigh (o berberi). Questa eterogenea compagine, che si è autonominata “Governo di salvezza nazionale” con a capo il leader Khalifa Ghwell, non è stata ufficialmente riconosciuta né dai libici né a livello internazionale, ma ha goduto delle simpatie della Turchia di Erdogan.

Nel Fezzan, a sud del Paese, una miriade di tribù tradizionalmente in lotta fra loro che, finora non molto considerate sul piano politico, potrebbero costituire un pericolo da non sottovalutare. Questi gruppi tribali, tra i quali regnano la criminalità e il commercio clandestino, soprattutto legato agli idrocarburi, rischiano di diventare un corridoio verso sud per l’altra grande minaccia presente nel Paese: l’ISIS.

Milizie dello Stato Islamico sono presenti in Libia fin dal 2011, distribuite nell’area di Derna-Sirte, dove sono presenti i maggiori giacimenti petroliferi del Paese. Curiosamente, però, l’ISIS non ha qui la struttura definita che possiede in Siria o in Iraq: è proliferato sfruttando il caos della nazione, alimentato da tutti i sostenitori del vecchio regime o oppositori del nuovo che, non sapendo dove collocarsi, hanno scelto di saltare sul carro di quello che, sperano, possa essere il vincitore. In realtà, neppure le forze libiche più estremiste vedono di buon occhio l’ISIS, tanto che le truppe del califfato sono state cacciate da Derna dalla brigata dei Martiri di Abu Salim, un gruppo islamista formato da ex jihadisti ma più interessato a una mediazione politica. L’ISIS, insomma, non ha in Libia vita facile come altrove in medioriente e potrebbe soffrire particolarmente un accordo per l’unità nazionale.

Libia
Fonte: Internazionale

NASCE UN NUOVO GOVERNO

Mentre tutto questo accadeva in Libia, a Skhirat (Marocco) si lavorava per dare al Paese una stabilità maggiore di quella che i due “governi” potevano garantire. L’8 ottobre Bernardino León, inviato speciale dell’ONU, annunciava la nomina a Primo Ministro del futuro governo libico di Fayez al-Sarraj. Si auspicava l’intervento di tutte le maggiori forze della Libia per raggiungere l’obiettivo: un accordo sulla formazione del nuovo governo di unità nazionale.

Una lieve battuta di arresto si è avuta a metà novembre, quando Bernardino León si è dimesso dalla carica, cedendo il posto a Martin Kobler. Nonostante questo, il 17 dicembre le Nazioni Unite hanno raggiunto il primo risultato importante: la costituzione di un Consiglio Presidenziale con a capo lo stesso al-Sarraj e formato da altri otto membri. L’accordo, siglato dai rappresentati di entrambi i parlamenti – ma non dai loro Presidenti, cosa che ha gettato un’ombra sulle congratulazioni che i diplomatici si sono scambiati – prevedeva la formazione di un nuovo Governo di Unità Nazionale (che rispettasse tutte le parti, beninteso!) entro quaranta giorni; governo che sarebbe dovuto essere approvato da entrambi i parlamenti, quello di Tobruk e quello di Tripoli, e possibilmente anche dai leader “duri” dei due schieramenti libici – ma su questo nessuno faceva troppo affidamento.

Tutto è bene quel che finisce bene. E invece no. Il Consiglio Presidenziale ha dato fin da subito prova di una pericolosa divisione interna: la prima proposta di governo, arrivata il 19 gennaio con 48 ore di ritardo, giungeva approvata da sette membri su nove e prevedeva 32 ministri. Troppi e mal distribuiti, secondo i due parlamenti libici, che infatti hanno bocciato la proposta senza nemmeno attendere i canonici dieci giorni. Ma la maggior parte dei parlamentari ha espresso la sua fiducia nei confronti del Consiglio Presidenziale e ha concesso a al-Sarraj altro tempo.

Finalmente, dopo molte esitazioni e rinvii, il 14 febbraio è arrivata la proposta definitiva: un Governo di Unità Nazionale composto da tredici ministri e cinque ministri di Stato. Diversi nomi erano stati cambiati rispetto alla prima proposta, ma i due più importanti erano rimasti immutati: quello del leader, Fayez al-Sarraj, e quello di Al-Mahdi al-Barghathi, che avrebbe ricoperto il delicato ruolo di Ministro della Difesa. L’approvazione dei due parlamenti sarebbe dovuta arrivare a giorni; e invece non è mai arrivata.

Colpa degli attacchi USA contro il campo di addestramento dell’ISIS a Sabratha? Colpa delle operazioni militari nell’area di Bengasi, a est del Paese? Colpa dell’eccessivo pressing dell’Occidente, primi tra tutti gli Stati Uniti? Difficile dirlo. Ma forse il responsabile maggiore dell’immobilismo di Trobruk – non l’unico, sicuramente – è Khalifa Haftar. L’ex-generale gheddafiano, infatti, comanda le forze militari della Cirenaica, che lui chiama impropriamente “esercito libico”, ed è Ministro della Difesa del governo di al-Thinni. L’ascesa del nuovo governo di unità nazionale provocherebbe la sua immediata caduta, soprattutto perché pare che il generale non abbia né l’appoggio della popolazione né la simpatia di molti suoi colleghi, che vedono in lui un grosso ostacolo alla ricomposizione dell’unità. Con al-Sarraj saldamente al potere, insomma, Haftar sarebbe messo da parte senza troppi complimenti.

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L’arrivo di al-Sarraj a Tripoli – Facebook/AFP

COSA SUCCEDERÀ?

Quali sono ora le prospettive per il futuro? In una situazione complessa e in continua evoluzione come quella libica è praticamente impossibile fare previsioni. Il fatto che al-Sarraj sia sbarcato a Tripoli quasi senza incontrare resistenza e che nelle successive ore non sia scoppiato un conflitto armato in piena regola è già un ottimo risultato; il Premier e i suoi ministri hanno iniziato i lavori, pur stanziati ancora nella base navale di Abu Settah. Ma il nuovo governo non può decisamente dirsi al sicuro: in mancanza di un forte esercito che possa competere con le milizie di Haftar in Cirenaica, per al-Sarraj è fondamentale iniziare a costruire consensi intorno a sé. Molti, ironicamente, parlano di una “campagna acquisti” che il premier libico sostenuto dall’ONU starebbe mettendo in atto, ma la verità è che la situazione assomiglia più ad una partita di scacchi.

Sul fronte tripolitano le cose non vanno meglio. Dopo la sua “fuga” di a Misurata e le voci secondo cui la lista dei suoi sostenitori si era paurosamente assottigliata, Khalifa Ghwell è tornato nella capitale accompagnato dalle milizie della  sua città. Nonostante il profilarsi di una pericolosa convivenza, però, la situazione sembrava evoluta verso una felice conclusione lo scorso 5 aprile, quando il Premier ribelle aveva annunciato la “resa” del governo di Tripoli-Misurata al nuovo governo guidato da al-Sarraj e aveva assicurato la propria collaborazione. Solo 24 ore più tardi, tuttavia, Ghwell ha ritrattato la propria posizione, annunciando di non avere intenzione di lasciare l’incarico e invitando i suoi ministri a non dimettersi. Un duro colpo per il governo di unità nazionale, che già sperava in una riconciliazione pacifica almeno sul versante Tripolitano. Da allora la situazione non è mutata: ognuno sta aspettando che l’altro faccia la propria mossa.

Sul piano internazionale invece il governo di al-Sarraj raccoglie consensi. Lo scorso 12 aprile Paolo Gentiloni, Ministro degli Esteri, si è recato di sorpresa e Tripoli e ha incontrato il Premier del governo di unità nazionale; è la prima volta che l’esponente di un governo occidentale si reca in Libia dal 2012. Gentiloni ha annunciato l’invio da parte dell’Italia di aiuti umanitari, il totale sostegno al governo di unità nazionale e la ferma intenzione di favorire le trattative con i due parlamenti, specialmente quello di Tobruk. Anche al-Sarraj si è dichiarato soddisfatto dell’incontro; non altrettanto si può dire di Khalifa Ghwell che, in un’intervista a La Stampa, ha dichiarato che quello del Ministro degli Esteri è stato «un atto di illegalità».

Nonostante al-Sarraj reputi fondamentali i rapporti di buon vicinato, sembra chiara la sua intenzione a non richiedere all’Occidente interventi di tipo militare. Sarebbe, in effetti, una pessima mossa: un governo nato fuori dalla Libia con il sostegno dell’ONU, non approvato né dal parlamento di Tripoli né da quello di Tobruk, asserragliato in una base navale e incapace di prendere completamente possesso della capitale si comprometterebbe definitivamente chiedendo aiuti esterni dopo sole due settimane dall’insediamento; sarebbe una prova di debolezza che in questo momento non si può permettere. Dunque non resta che aspettare e sperare: la prossima mossa è attesa lunedì 18 aprile, quando il parlamento di Tobruk si riunirà per votare il governo di unità nazionale.

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Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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