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Edipus in Brianza: il guitto
solitario e l’utopia di Dioniso

12 minuti di lettura
© Manuela Giusto
© Manuela Giusto

Quest’anno sulla scena milanese Edipo è una superstar, ma se esistessero sismografi dell’emozione, avrebbero registrato un picco nell’ultima settimana al Teatro Filodrammatici, dove si è potuto ammirare l’allestimento di Leo Muscato dell’Edipus di Giovanni Testori, una delle figure più significative del Novecento italiano. Intellettuale poliedrico (critico d’arte e letterario, pittore, poeta, narratore, drammaturgo), spirito inquieto e controcorrente, religioso e anarchico, malinconico ed espressionista, lirico e dissacrante. Aspetti dissonanti che si ritrovano anche in questo testo (1977), terzo capitolo della “trilogia degli scarrozzanti” (dopo Ambleto, 1972 e Macbetto, 1974). L’opera nasce negli anni bui del terrorismo e del compromesso storico, con la delusione che si riversa nelle contestazioni di piazza e il ribollire di forze creative dirompenti: in tale contesto Testori decide di sfidare il mito fondativo della civiltà occidentale, Edipo.

L’operazione letteraria è all’insegna della dislocazione spiazzante: l’antica Tebe è collocata in una landa desolata dell’anonima periferia brianzola; la solennità del genere tragico cede il posto all’ululato monologante, che tende verso il basso più prosaico; il mito si fa sanguigna carnalità, teso e alterato con esiti di grande potenza. Non tanto dissacrazione del testo originario, quanto “massacro”, (come spiega lo stesso Muscato in una nota di regia), parola che in sé contiene l’efficacia spietata del rivolgimento, alla ricerca però di nuove pieghe del sacro, che parli con crudezza al brutale presente.

Con un «Sdervisciate il siparium!» siamo introdotti alle acrobazie di un ibrido pastiche linguistico, in cui un fondo di latino maccheronico si sposa a residui di forme dialettali e parole straniere storpiate. Una lingua “barbarica” che si autoinventa e corre impetuosa come un fiume in piena. Dapprima l’effetto sconcertante diverte il pubblico, che coglie la nota comica delle deformazioni e dei cali improvvisi al registro basso-volgare (ad esempio gli occhiali sono «lentizioni», il sovrano seduto sul trono è «intronato», le lodi in suo onore diventano «inni eiaculatori», la disperazione fa sentire «spetasciati»). In breve però questa strana parlata conquista la sua ragion d’essere e diventa urgenza espressiva, che comporta slittamenti verso il crudo realismo e, in direzione contraria, tocca vette di musicalità e poesia.

Il regista ha scelto come suo unico interprete un grande talento, il piemontese Eugenio Allegri, che ha portato sulle scene di tutta Italia Novecento di Alessandro Baricco, ma ha vestito anche i panni di Cyrano, Zio Vanja e innumerevoli altri personaggi (fra i moltissimi impegni ora è anche Direttore Artistico del Teatro Fonderia Leopolda di Follonica). Allegri è un istrione di grande livello che ha emozionato il pubblico milanese: perfettamente a suo agio nei garbugli linguistici del testo, si è impegnato in una recitazione plurale e polifonica senza risparmio di forze, con una vena di autoironia confinata in piccoli gesti, dissipando con un velo di malinconia e di livida leggerezza i momenti di maggiore intensità. Si ammira soprattutto la naturalezza con cui riesce a scivolare da un ruolo all’altro, caratteristica in cui gli esperti riconoscono l’insegnamento di Jacques Lecoq, maestro del teatro fisico (mimo e Commedia dell’Arte).

© Manuela Giusto
© Manuela Giusto

In effetti la prima posa dell’attore sembrerebbe un omaggio alla tradizione del travestimento circense. Al centro della scena, uno scranno in legno un po’ malconcio con lo schienale rivolto verso la platea e la targa “Fragile”. Appollaiato su questo sedile, un po’ trono e un po’ sedia da regista, Allegri si desta da un sonno inquieto e si mostra al pubblico in completo bianco, papillon e naso rosso da clown. Sorride, e poi si avvia, un po’ appesantito dalla stanchezza, verso un siparietto dietro cui appaiono costumi e manichini. Tolto il naso posticcio, l’Edipus può cominciare, e l’ultima scena ricomporrà questa immagine. Introduzione ed epilogo vogliono forse sottolineare la natura del guitto, costretto a fare il clown dalla superficialità dei tempi attuali, sordi alla bellezza. La targa “fragile” è quindi un indizio sulla condizione del teatro, fatto da “materiale umano” in via di estinzione, perciò da proteggere, e che pure continua a presentarsi in scena, salutandoci «per adesso e sempris», dichiarazione di pervicace resistenza.

Infatti Muscato legge questa opera di Testori come «uno fra i più significativi ed emozionanti manifesti d’amore per il teatro che siano mai stati scritti». In scena c’è il capocomico degli Scarrozzanti, una scalcagnata compagnia di attori girovaghi della Brianza profonda. I compagni lo hanno abbandonato e tradito: il primo attore ha cercato fortuna tra i lustrini della rivista, l’attrice è scappata con un mobiliere che le offriva una vita agiata. Rimasto solo, con tenacia egli continua a recitare per il suo pubblico, «spetaculanti che scalpitano come una mandria di cavalli che snitrisce». Sarà lui a impersonare i tre personaggi della «tragediosa tragedia»: Laio, Iocasta e l’Edipus, in una giostra di alternanza che talvolta lo porta a confondersi sulla propria identità. Infatti è un continuo entrare e uscire dai ruoli: mentre indossa la pelliccia e la parrucca bionda per interpretare Iocasta, il capocomico inveisce contro l’ingrata «suberetta, che fu la causale di tutto: tutti dopo di lei se ne sono anda’ verso i posti più antatragici». E così, anche sotto i paludamenti dei costumi di scena, la voce che egli presta ai personaggi, è in realtà la sua, quella di un guitto solitario che grida il suo disperato amore per la libertà e la bellezza dell’arte. E noi, i riveriti «spetaculanti», siamo il popolo-bue tebano, i testimoni dell’orrore tragico in attesa di catarsi e dell’anarchica dichiarazione di un «antacristo» che osa levarsi perfino contro Dio.

In questa Tebe lombarda regna il tronfio Laio, mantello regale e tiara in testa, perché incarnazione in terra dell’abbraccio di politica e religione. Egli governa con ferocia spietata, tutto compreso nel proprio ruolo di onnipotenza, esercitata con torture ed esecuzioni sommarie («decrapazioni»). Il clima di terrore è stemperato dalla fisicità di Allegri e da abili trovate, come la sonorità poco consona: infatti, per la penuria di mezzi, invece di trombe araldiche, parte il disco Oh mia bela Madunina in una versione d’antan.

Con una deviazione rispetto al testo sofocleo, l’Edipus (che il re aveva cercato di «soppressare» a seguito di un oracolo che prevedeva in lui «il desfacitor del tutto») torna a Tebe, dove si macchia di parricidio e incesto. Al contrario del mito però, Edipus è pienamente consapevole dei suoi atti. È il «dio luciferino, dio dei diversificati, che comanda disordine e rovina», cioè Dioniso, il dio del caos, a guidare la mano del giovane, che non esita a sodomizzare ed evirare il padre e poi, in una sorta di auto-annientamento, si unisce alla madre in una scena terribile: vuole entrare nel ventre materno per prendere il posto del padre e così cancellarlo, o meglio vanificare l’atto spermatico genitoriale e quindi la sua stessa nascita.

© Manuela Giusto
© Manuela Giusto

Lo splendido monologo finale rivolto ai «Tebànechi» e quindi a noi in platea, dà luce a tutto il percorso precedente. «La tirannia è scciopada» grida Edipus al popolo, annunciando la morte di Laio, ed espone il suo progetto innovativo. Anzitutto, un viaggio, dislocazione necessaria per abbandonare l’ordine fasullo e le catene della paura di Tebe. La meta sarà Colono (il sobborgo di Atene, ultimo asilo del mitico eroe sofocleo), simbolo di tutto ciò che è “fuori-di-qui”, anche fuori dal teatro. In questo slancio utopico Edipus sogna che dal cemento nasceranno prati e fiori, e sarà possibile finalmente esercitare la propria libertà e l’amore nella sua forza più istintiva. Questo nuovo Edipo, che al tempo stesso è un attorucolo reietto, diventa messaggero di Dioniso, dio del teatro, della metamorfosi e della rivolta a ogni imposizione, cioè ruoli sociali, politici, religiosi o perfino teatrali. Un’utopia anarchica che crolla nel sangue, sotto i colpi di mitragliatrice di qualche nuovo Laio nascosto nella città. «La tragedia è finita», uccisa sotto i nostri occhi. Eppure il teatro resiste, grazie a prove d’attore encomiabili e opere di grande potenza espressiva.

Edipus
di Giovanni Testori
con Eugenio Allegri
regia di Leo Muscato
Teatro Filodrammatici, Milano

23-28 febbraio 2016

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Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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