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Giovanni Giudici

Giovanni Giudici: poesia nella contemporaneità “in-poetica”

12 minuti di lettura

Metti in versi la vita, trascrivi

fedelmente, senza tacere

particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è

Sapere, né potere, bensì ridicolo

Un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano

Complicità di visceri, saettano occhiate

D’accordi. E gli astanti s’affacciano

Al limbo delle intermedie balaustre:

applaudono, compiangono entrambi i sensi del sublime-l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire

È possibile a tutti più che nascere

E in ogni caso l’essere è più del dire.

[G. Giudici-La vita in versi]

Può l’uomo di oggi essere poeta? O meglio, più precisamente: può l’uomo contemporaneo immerso a pieno titolo nella società contemporanea, trovare la poesia ed esserne soggetto, o per lo meno oggetto?

La risposta è difficile a darsi, perché, prima ancora di trovarla, sorgerebbe spontanea una nuova domanda: cos’è poesia e cos’è poetico?

Nel bel mezzo del «cuore del miracolo» (così Giudici definisce la Milano del boom economico, dove viveva), Giovanni Giudici, poeta contemporaneo nato il 26 giugno 1924 e scomparso il 24 maggio 2011, ci ha provato.

Parlo di me, dal cuore del miracolo:

la mia colpa sociale è di non ridere,

di non commuovermi al momento giusto.

E intanto muoio, per aspettare a vivere


[G. Giudici-Dal cuore del miracolo]

Così il poeta si auto-raffigura all’interno della moderna società degli anni ’60. Egli non solo ha subito la “perdita dell’aureola” di baudelairiana memoria, non è semplicemente un uomo in mezzo agli uomini, senza più ispirazioni di Muse e mansioni di Vate e Profeta, ma è un non-uomo in mezzo a miliardi di non-uomini. La presa di coscienza della propria inettitudine spinge Giovanni Giudici ad auto-raffigurazioni ironiche e comiche, di un sé stesso che si sdoppia e parla con la propria interiorità, in scene icastiche e fortemente teatralizzate, che diventano l’emblema della sua poesia.

Egli, prendendo le mosse da una poesia definita “anti-novecentesca”, perché essenzialmente non ermetica, assurge a suo modello Saba, con il quale avrà il piacere di entrare in contatto e che lo aiuterà con le prime pubblicazioni (tra cui la prima plachet: Fiori d’improvviso) e Montale.

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A partire dai primi esperimenti poetici di gioventù, negli anni ’60 si afferma come poeta e fissa definitivamente la sua poetica attraverso tre pubblicazioni: Se sia opportuno trasferirsi in campagna (1961); L’educazione cattolica (1963); La vita in versi (1965).

L’ultima di queste tre pubblicazioni, La vita in versi, si presenta come riassunto definitivo delle prime due, e le comprende al suo interno. All’interno di questo libro poetico si può operare una sorta di viaggio nella vita di Giovanni Giudici, come attesta il titolo, a partire dalla sua infanzia, fino ai suoi turbamenti interiori, alla sua fede politica, al suo modo di percepire il mondo e la realtà.

La svolta che consacra Giovanni Giudici come poeta contemporaneo si può ricercare nell’adozione di una serie di temi ed argomenti rappresentativi in una certa misura inediti all’interno della tradizione poetica italiana. Il poeta si pone come osservatore e personaggio di una realtà in-poetica che percepisce la letteratura e l’arte come “perdita di tempo”, perché non sono parte attiva del processo produttivo che sta facendo fiorire, nell’ottica del capitalismo sfrenato degli anni del miracolo economico, lo Stato Italiano all’indomani del terribile dopoguerra.

La poesia assume le vesti di un particolare realismo anti-lirico, utilizzando immagini del quotidiano e parole del quotidiano. La poesia di Giudici è ricca di neologismi e parole dell’italiano dei “semi-colti”, con voluti colloquialismi ed errori nella forma e nel lessico. É una poesia, quindi, che si fa fotografia della realtà che prende a soggetto. Tuttavia una fotografia fortemente critica e problematizzata.

Umiliato membro del nuovo ceto medio impiegatizio dell’Italia degli anni Sessanta, l’io de La vita in versi è una proiezione autobiografica, ma anche una sorta di metafora riduttiva, ironica e frustrante. Un massimo di verosimiglianza, di autenticità, di autobiografismo si associa ad una tecnica di sottile teatralizzazione straniata, serio-comica, di sé.

L’io poetico si fa portavoce delle nevrosi dell’uomo moderno, prima tra tutte il desiderio del benessere e la sua inevitabile rivelazione come vanità.

(…)Tregue

scarse offre la vita a chi insegue la sua ombra perché veda la sorte

che non libero scegli sulle porte

d’ogni mattino: i segni del benessere,

che l’avversario porge, accetta e crede

accettandoli d’essere

simile a lui, più forte-e non più fede

nel proposito serba, cede al gioco.

Io che parlo del popolo (fu poco

Lo spazio per decidere) è di me

Che parlo consapevole, perché

La volontà non basta, occorre il fuoco

Per non morire-ed il popolo in me

Con nuovi sbagli a sbagli antichi oppone

Riparo, si contenta a una carezza,

cane bizzarro d’astuto padrone

(…)

[G. Giudici-Autocritica]

Una delle tensioni più forti all’interno dell’animo di questo autore è quella tra “le due chiese”, ovvero tra la Chiesa Cattolica, i cui insegnamenti ha interiorizzato da piccolo frequentando scuole cattoliche, e la sua fede politica Socialista.

Consapevole delle discrepanze tra le due fedi, spesso si tormenta chiedendosi se sia possibile farle convivere nello stesso volto.

«Vive un uomo di doppia verità», scrive in Versi per un interlocutore, dedicata a Franco Fortini, suo amico e confidente. Ma prosegue poi

non è il vecchio filosofo cui debbano pietà

il duplice avversario e i suoi lontani

discepoli: in tempi non umani

ancora, vana scelta tra lamento

e apologia, ossequio e tradimento,

rifiuta se gli è concesso vivere

confuso nei suoi simili e descrivere

la verità che rifiuta un perché

volgare. (…)

Gli errori del popolo non sa

chi in se stesso non li ha patiti e crede

palese il vero e vero ciò che vede

in altri, tutti gli uomini in eguali

numeri imprigionati, i loro mali

senza volto, i peccati senza amore.

(…)

Ho visto le città

Morire nel benessere, fuggire

Per viltà e per orgoglio molti, tradire

E non sperare, ansiosi d’una prova

Che il bene rifiuta a chi non trova

Bene fuor di se stesso, a chi non vuole

Condividere amore e disamore

Pane e fame, libidine e virtù.

[G. Giudici-Versi per un interlocutore.]

In questi frammentari versi è racchiusa tutta la tensione non solo di un uomo, ma dell’uomo a cui Giovanni Giudici vuole dare voce. Assieme agli altri, assieme all’intera opera poetica de La vita in versi, possono aiutare a capire quale sia la risposta dell’autore alla domanda iniziare, se sia ancora possibile la poesia.

La poesia è possibile perché la poesia è l’uomo. Come scrive Giovanni nel componimento che dà il titolo alla raccolta l’uomo deve ricordare che “l’essere è più del dire” e che la vita è nel breve istante in cui si respira. Il mondo moderno, e oggi ancora di più che negli anni in cui Giudici scriveva, aliena l’uomo e lo isola in un’immobile solitudine all’interno del caos e della velocità che lo circonda e gli fa perdere la coscienza di concetti in apparenza elementari, ma estremamente essenziali, come “bene”, “amore”, “felicità”, “solidarietà”.

La poesia in tutto questo ha un valore fondamentale di ricerca. Per come si è evoluta essa non è più racconto di miti di eroi inarrivabili, non è appannaggio di pochi nobili intellettuali seduti ad un simposio, ma è strumento dell’uomo per l’uomo. Questo è quello che rimane tra le dita dopo aver letto Giovanni Giudici. Una poesia essenzialmente semplice, a tratti prosastica, lineare, con una musicalità sensibile, che distende i toni nei momenti di confidenza, li accelera nei momenti di fervore, ed intrinsecamente vicina all’uomo che, affannato nella routine quotidiana, tenta in ogni modo di liberarsi della monotonia e del grigio della banalità, di cui si erge come emblema la nebbiosa e frenetica Milano dei borghesi, per riuscire a dare valore all’istante.

Un uomo che, ad un certo punto, quasi tornando alle origini del mito, si sente immobilizzato nella sua impossibilità di scelta, consapevole di essere inserito in una catena di montaggio continua di giorni che si susseguono uguali e di “domani che erano già ieri da sempre”.

È questa l’essenza tragica dell’esistenza che Giovanni restituisce al lettore, dopo averla sperimentata nel suo quotidiano tutto “amaro di caffè”. L’esistenza dell’inetto che anche Svevo riuscì magistralmente a dipingere in Zeno Cosini.

È possibile reagire?

Probabilmente solo riappropriandosi di se stessi tramite la continua messa in discussione di sé, delle proprie fedi, di ciò che la società ci propone con allettanti slogan come bello, buono, desiderabile.

Supponi un altro punto un’altra meta

retta sfera-un’altra orbita che

tutto includa intersechi sorpassi,

chiudi in prestito il numero che manca

alla certezza-alcrocevia, un cartello.

Evita il non supposto pipistrello,

il viscido in agguato:

“Dimmi-e se

fosse tutto sbagliato?

[G. Giudici-Sperimentale]

Costanza Motta

Immagine di copertina: internopoesia.com

 


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Costanza Motta

Laureata triennale in Lettere (classiche), ora frequento un corso di laurea magistrale dal nome lungo e pretenzioso, riassumibile nel vecchio (e molto più fascinoso) "Lettere antiche".
Amo profondamente i libri, le storie, le favole e i miti. La mia più grande passione è il teatro ed infatti nella mia prossima vita sono sicura che mi dedicherò alla carriera da attrice. Per ora mi accontento di scrivere e comunicare in questo modo il mio desiderio di fare della fantasia e della bellezza da un lato, della cultura e della critica dall'altro, gli strumenti per cercare di costruire un'idea di mondo sempre migliore.

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