È considerato uno dei migliori chitarristi in Italia e, non a caso, si è aggiudicato il premio FIM Chitarrista dell’anno 2013. Luca Colombo: Chitarrista, arrangiatore, direttore musicale, docente al Conservatorio di Parma e insegnante in seminari e stage formativi che conduce in giro per l’Italia, nonché autore della pubblicazione in tre volumi Vita da chitarristi, metodo didattico che sta avendo molto successo.
Luca Colombo suona la chitarra da circa 20 anni, ha collaborato con i più importanti artisti italiani (Marco Mengoni, Eros Ramazzotti, Nek, Anna Oxa, Antonella Ruggiero, tanto per citarne alcuni) e stranieri (Robbie Williams, Lionel Richie, Phil Collins, Michael Bublé, James Blunt...).
È la prima chitarra dell’orchestra del Festival di Sanremo dal 2007 e ha partecipato ad altre note trasmissioni televisive come Buona Domenica, Sabato Italiano, Un disco per l’estate, Fiorello Show, Rockpolitik, X Factor e molte altre.
Oltre ad essere impegnato in diversi tour in Italia e all’estero, porta avanti un progetto live, The Luca Colombo Band, insieme a Paolo Costa (basso), Lele Melotti (batterista) e Giovanni Boscariol (tastiera), con i quali ha registrato Sunderland, disco che contiene 12 brani strumentali, dall’animo rock, a volte graffiante, ma anche di una incredibile delicatezza.
Luca Colombo lo incontriamo prima del suo seminario di chitarra moderna a Millesimo, in provincia di Savona, organizzato in collaborazione con la scuola di musica della banda Musicale A. Pizzorno.
Come è nata questa tua passione per le 6 corde?
È nata per caso, insieme alla passione per la musica che ho avuto fin da quando ero piccolo. E questa passione è passata attraverso vari strumenti, prima il pianoforte, poi il flauto, il classico strumento che si insegna nelle scuole. Poi dopo qualche anno è stata la chitarra a conquistarmi definitivamente.
Quali artisti ti hanno ispirato all’inizio della carriera e quali influenzano oggi le tue scelte sonore o stilistiche?
Potrei citare tutta una serie di capiscuola, come Jimi Hendrix e Jeff Beck. Ogni epoca ha avuto dei differenti riferimenti musicali. Ho avuto il periodo più jazz, per cui ho ascoltato John Scofield, Pat Metheny e, sullo stesso genere, andando indietro nel background, Tal Farlow, Wes Montgomery, Charlie Christian. Poi i periodi più rock, quindi da Eddie Van Halen, Steve Lukather, fino ai più recenti Steve Vai e Joe Satriani, però guardandoli in una maniera diversa, perché ero già nel periodo “personalizzazione”. Più in generale ho ascoltato sempre tante band che avevano il chitarrista, ma anche quelle che non lo avevano, come i Weather Report o come in alcuni periodi gli Yellowjackets, poi le band più pop a partire dai Pink Floyd fino ad arrivare ai più recenti Coldplay.
Quando sei chiamato a lavorare per altri, come ad esempio al Festival di Sanremo, segui scrupolosamente le indicazioni del direttore d’orchestra o riesci a personalizzare il brano mettendoci del tuo?
Entrambe le cose. L’obiettivo è di riproporre, in un contesto televisivo live, il singolo, che poi dovrà essere promozionato dall’artista in radio successivamente. Quindi il tutto comincia seguendo esattamente le indicazioni impartite. Ovviamente, essendo presenti musicisti diversi con formazione altrettanto diversa, è normale che avvenga una piccola personalizzazione del suono, a volte anche un arricchimento. Per cui ognuno di noi cerca di mettere qualche piccolo colore artistico in un suono differente, nella parte che magari è più articolata rispetto all’originale. Però parliamo sempre di dettagli che non vanno assolutamente a cambiare il carattere del brano.
Quanto le innovazioni tecnologiche hanno influito sul tuo sound?
Tanto. Sono sempre molto attento alla tecnologia, sia per quanto riguarda i nuovi tipi di effetto, sia per le novità in fatto di amplificatori o chitarre. Spesso un nuovo suono mi dà lo spunto per comporre un brano. Per cui, nel corso degli anni, nei miei lavori solistici, ho utilizzato strumenti che hanno avuto un colore particolare per via di una sonorità. Nel mio ultimo album, la title track Sunderland è un brano che ho composto proprio utilizzando un particolare aggeggio che si chiama EBow (o archetto elettronico, ndr) che produce un suono singolare sulla chitarra. È stato inventato negli anni ’60, ma non è così diffuso come tanti altri apparecchi.
Guardando il tuo sito, ci siamo stupiti della quantità impressionante dei pedali effetti che usi. Perché non hai scelto un multieffetto compatto? Quali vantaggi hai riscontrato nel gestire una moltitudine di elementi rispetto all’utilizzo dei preset?
Ogni singolo tassello viene scelto da me minuziosamente in mezzo a tanti altri. In un multieffetto, hai fondamentalmente delle simulazioni. Se io invece voglio una distorsione, posso sceglierne una che può essere prodotta da un transistor o da una valvola o da un diodo al silicio o al germanio, per cui ci possono essere tante tipologie di suoni differenti. Tutto ciò crea una «tavolozza di colori» che non potrebbe essere racchiusa in un multi-effetto. Poi arriva invece la parte di automazione che è necessaria tipo in una trasmissione televisiva o in un tour. Però fondamentalmente il perché è per un fattore sonoro.
I tuoi lavori sia come solista che con la tua band sono strumentali. Non senti l’esigenza di un testo? Pensi che basti la musica per raccontare le emozioni?
Sì, assolutamente. Lavoro sempre coi cantanti, per cui mi piace l’idea di avere un suono mio totalmente differente. Certo che è difficile raccontare qualcosa senza un testo, però, per contro, è anche più facile lasciare spazio all’immaginazione, per cui il risultato strumentale diventa quasi come un quadro astratto.
Quanto incidono al giorno d’oggi i canali youtube e i social network per far conoscere il proprio talento? La misura del successo dipende dal numero di visualizzazioni e dalle condivisioni su internet o è ancora fondamentale passare tramite radio e tv?
Ti direi che è più vera la seconda ipotesi dei canali tradizionali, però è innegabile che adesso i social network svolgano una grossa azione di diffusione per spingere un progetto. Però esiste una terza ipotesi, che non hai citato, che è quella del concerto: è quello che fa conoscere il talento. Il social network al limite può dare la fama ma non è detto che quello che tu percepisci da un video su youtube corrisponda alla sensazione reale che può dare un artista dal vivo.
Ora più che una domanda, ti proponiamo una sfida: hai un minuto di tempo per convincere un chitarrista che il tuo metodo gli sarà indispensabile e che non può perdersi il tuo seminario. Cosa gli dirai?
Ah no, io non cerco di convincere nessuno. L’unica maniera per fare in modo che qualcuno segua quello che ho da proporre è eventualmente ascoltare i miei lavori solistici e decidere se gli piace il mio modo di suonare. Io mi considero un chitarrista un po’ “di nicchia”, per cui faccio fatica a propormi alle grandi masse. Da anni, forse un po’ meno ultimamente, la chitarra va nella direzione dello shredding, del tecnicismo ricercato. Io non ho mai seguito questa strada. Trovo invece che sia molto importante lavorare sull’espressività sonora, e questo arriva dopo un certo processo di maturazione. Per quanto riguarda il fattore didattica, ci sono tante cose da sapere che molti non immaginano. Adesso tutti partono un po’ con l’idea di cimentarsi nel “solismo”, che è l’aspetto più eclatante, ma in realtà dietro c’è tutta una serie di tematiche che vanno studiate nel momento in cui un chitarrista si rende conto di essersi fermato ad un certo livello e non riesce ad andare oltre. E allora lì subentrano i miei metodi.
Tra i seminari, l’insegnamento al conservatorio, gli eventi live con la band, le tournée con i vari artisti, le registrazioni, c’è ancora spazio per nuovi progetti?
Sì, non molto tempo però è una delle cose a cui tengo di più, per cui continuo a scrivere brani per un nuovo disco. Ora sono anche diventato più bravo a gestirmi le tempistiche relative alla logistica, più che altro. Quindi la creazione della copertina, il mix della masterizzazione. Essendo più veloce a risolvere queste problematiche, mi rimane più tempo per la composizione e la realizzazione.
Ringraziamo Luca Colombo e restiamo per partecipare al seminario. Più di 70 sono gli appassionati di tutte le età che si sono iscritti e hanno seguito con attenzione e vivo interesse i temi proposti. Creatività e interpretazione, l’impostazione di un buon metodo di studio, improvvisazione, effettistica, tecniche attuali nella chitarra rock, questi alcuni degli argomenti trattati.
Ma non solo teoria: Luca Colombo ha dato sfoggio della sua bravura e dimostrato, in pratica, l’uso della strumentazione altamente tecnologica, suonando alcuni brani dell’album Sunderland, incantando i presenti con i suoi virtuosismi e il suo stile.
Il Fascino degli Intellettuali ringrazia Luca Colombo per la disponibilità, Luigi dello Studio Alchemy per il supporto, Giorgio e tutti gli insegnanti della Scuola di Musica della Banda Pizzorno
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