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“Il medico di campagna”: quando curare significa soprattutto ascoltare

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Chi può fare un film sulla medicina meglio di un medico? Thomas Lilti, classe 1976, medico e sceneggiatore francese, ne ha fatti ben due. Dopo l’esordio nel 2007 con Les Yeux bandé, nel 2014 Lilti ha portato sullo schermo Hyppocrate, la storia di un giovane e intraprendente medico di città. Gli fa ora da contraltare Il medico di campagna, il cui protagonista è sempre un uomo di medicina, ma tutt’altro che giovane e intraprendente.

François Cluzet abbandona i panni del malato (vestiti in Quasi amici) e interpreta Jean-Pierre Werner, il medico di un piccolo paesino della campagna francese. Da trent’anni Jean-Pierre inizia la sua giornata alle 7 del mattino, spostandosi tra strade fangose, oche arrabbiate e vecchie case per visitare uno ad uno i suoi pazienti, ma questa vita sembra soddisfarlo pienamente: sa di essere indispensabile per i suoi compaesani. Ecco perché, quando scopre di avere un tumore al cervello, l’uomo continua a fare il suo lavoro come se niente fosse, nonostante il suo oncologo (e amico) gli consigli di trovarsi un sostituto e pensare alla propria salute.

Quello che Jean-Pierre non si aspetta è l’arrivo di Nathalie Delizia (Marianne Denicourt), inviata dal dottor Norès. Nathalie, laureatasi da poco nonostante l’età non proprio giovanile, vorrebbe imparare ad essere un medico di campagna ma, come le dice perentoriamente Jean-Pierre, «medici di campagna non si diventa». Il suo male, però, non ha intenzione di scomparire da un giorno all’altro; così è costretto ad accettare l’ingombrante presenza di questa donna e a cederle, a poco a poco, gli spazi che erano stati suoi per trent’anni.

Jean-Pierre (François Cluzet) in una scena del film

La storia de Il medico di campagna si snoda esattamente come la vera vita di campagna: tranquilla e un po’ monotona, senza grandi coup de théâtre. Alcune scene ci strappano un sorriso, come accade incidentalmente nella vita reale: a regalarcelo sono soprattutto i pazienti del dottor Werner, per lo più ingenui vecchietti che faticano a togliersi i troppi strati di vestiti o sguinzagliano oche poco amichevoli. E anche Jean-Pierre stesso, con la sua sferzante ironia a spese della povera Nathalie, talvolta ci fa ridere. Lo storico medico di campagna non è disposto a cedere il suo posto facilmente alla nuova arrivata e, almeno all’inizio, fa di tutto per metterla in imbarazzo.

Ma dietro l’atteggiamento poco simpatico di Jean-Pierre si cela una lieve critica sociale, che il Lilti, per mantenere il proprio film sul leggero, si limita solo ad accennare. In campagna il medico non è un semplice guaritore: è spesso anche un amico, uno psicologo, un confidente. Per questo il requisito fondamentale per un medico di campagna non è saper fare diagnosi, ma saper ascoltare. È appunto il valore del silenzio che Jean-Pierre, con modi poco delicati, cerca di insegnare a Nathalie; ed è una lezione che la giovane dottoressa dimostrerà di aver ben appreso quando deciderà di rispettare gli spazi del suo riservato collega.

Il medico di campagna segue quel filone che Edgar Morin definì nel 1960 Cinéma vérité, cioè un tipo di cinema che supera il dualismo tra finzione e documentario. La storia di Jean-Pierre e Nathalie, in effetti, è finzione ma è raccontata come se qualcuno fosse inciampato per sbaglio nelle loro vite e abbia azionato una macchina da presa – con tanto di riprese a spalla. Il risultato è un film lineare, un po’ ironico e un po’ malinconico, ma solo quanto può esserlo la vita vera.

 

 

Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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