Classe 1995. Nata a Pisa, ma svizzera di adozione. Kety Fusco è una delle artiste più originali della sua generazione. Suona l’arpa, ma non è quello che pensi. È contemporanea, distorta. È uno studio dello strumento a 360 gradi.
Nel 2020 ha pubblicato il suo album di debutto, DAZED, con l’etichetta Sugar Music di Caterina Caselli, con cui è stata nominata in tre categorie agli Swiss Live Talents Awards. Tante le sue performance su palcoscenici prestigiosi e internazionali. Ospite di Joan Thiele con Frah Quintale a Sanremo 2025, è salita sul palco dell’Ariston per la serata dei duetti. Tra i momenti salienti, l’invito a suonare nel 2023 alla Royal Albert Hall di Londra, dove ha riscosso il tutto esaurito.
Il 19 settembre esce il suo secondo album, BOHÈME. Kety Fusco dona all’arpa forme di vita diverse e imprevedibili. Come usare il patafix sulle corde o immergere l’arpa in acqua per ricreare suoni mai sentiti prima. Collabora con il rivoluzionario del rock Iggy Pop ed è pronta a portare la sua arpa nei contesti più improbabili. «Una rappata con l’arpa? Why not».
Ciao Kety. Vorrei partire innanzitutto dal tuo nuovo disco, in uscita il 19 settembre, BOHÈME. Come ti senti e che valore dai a questo progetto?
Questo è il mio secondo album ed è arrivato dopo cinque anni dal primo. Nel frattempo ho fatto un altro album sperimentale, ma ero sempre in tour, quindi in ogni caso mi sono dedicata molto ai live. Diciamo che mi sono presa del tempo per capire e fare una ricerca approfondita su quello che è un po’ questo progetto. Perché comunque ho in mano un arpa, no? E non canto, quindi la mia voce è le mie dita sulle corde. Quando componevo mi piaceva l’idea che le persone non fossero accomodate dal suono dell’arpa o che non si aspettassero quello che stava per arrivare. Perché con l’arpa uno pensa sempre “che bella, com’è dolce, che bel suono”. Poi sente e dice “ah, ma non l’avevo mai sentita così” e rimane un po’ spiazzato, probabilmente deluso o sorpreso. Con questo album volevo creare delle composizioni che rappresentassero l’arpa contemporanea e moderna a 360 gradi. Ci sono anche dei brani un po’ più melodici in realtà, varia molto come album, perché comunque io vengo da quella cosa lì: dall’arpa classica.
È un rapporto tra passato e presente.
Esattamente. Però ho voluto esplorare di più. Tutta l’elettronica che senti nell’album viene dall’arpa e anche i rumori. Poi per delle piccolezze ho comunque utilizzato altri strumenti, ma niente di digitale. Questo album è il frutto di quella che è per me l’idea di un nuovo strumento. Lo strumento più antico del mondo, ma rivisto con gli occhi di oggi. Non si può parlare della stessa arpa di cui si parlava nel VII secolo.
Certo. Proprio la prima traccia, Hi, this is harp, inaugura questi suoni nuovi, fatti grazie a registrazioni subacquee. È una sorta di manifesto?
Sì, mi piaceva metterla come prima traccia proprio per dire: “Questo è quello che è”. Se vuoi ascoltare quest’album non devi illuderti di sentire qualcosa accomodante. Infatti quel brano è tutto fatto di arpa subacquea. Anche i droni sono stati registrati tramite la cassa di risonanza dell’arpa, utilizzando arnesi vari come una chiave inglese sulle corde. Anche l’ultimo arpeggio finale del brano in realtà è fatto con il patafix sulle corde, che fa questi suoni un po’ ovattati, no? Poi chiaramente è costruito: io ho realizzato i vari suoni e poi in produzione li ho messi insieme. Però rappresenta proprio quello che per me è l’arpa. Per questo mi piaceva metterlo per primo pezzo e chiamarlo “Hi, this is harp”. Per quanto tu ci creda o meno.
Nell’album ci sono anche atmosfere notturne e tensive, lontane dalla concezione classica dell’arpa. Quasi non sorprende allora vedere una delle tracce dell’album, BLOW, inserita in una serie televisiva thriller, ossia Alter Ego.
Sì, io adoro gli horror e mi piace anche che qualcuno dica: “Sai che in questa serie thriller c’è un’arpa?”
Come anche la tua collaborazione con Iggy Pop nel brano SHE, un rivoluzionario della musica.
Diciamo che questa collaborazione è stata un po’ una coincidenza. Iggy Pop ha un programma sulla BBC che si chiama Iggy Confidential e aveva parlato del mio album sperimentale, The Harp Chapter I, presentandolo come il suo disco preferito del momento. Poco dopo sarebbe venuto a suonare al Montreux Jazz Festival, a cui sono molto legata perché sono un’artista della Montreux Jazz Artists Foundation e ho suonato tanto con loro. L’organizzatrice del festival ha messo me e Iggy in connessione, perché suonavamo lo stesso anno. Lui è un visionario, mi piace la sua attitudine selvaggia: era quello che stavo cercando. Così gli ho detto che stavo componendo il nuovo album e che c’era questo brano che sentivo avesse bisogno di una voce profonda maschile. Gliel’ho fatto ascoltare e gli è piaciuto tantissimo e senza alcun timore mi ha detto di sì. Anche lui aveva voglia di sperimentare e così è nata la collaborazione. Per lui era qualcosa di completamente nuovo perché non aveva mai fatto nulla con un’arpa e ci siamo trovati.
Il brano è accompagnato anche da un video con un drone che si muove in un contesto post-apocalittico, tra le rovine di un mondo che fu. Qual è il messaggio veicolato tra suoni e immagini?
Sicuramente in questo video tutto il sound e la composizione è mirata al sentire questo loop continuo. Come una specie di mantra inquietante.
Una sorta di monito.
Esattamente. Mi piace anche che i visual artists abbiano creato il video con l’AI. In queste rappresentazioni voglio rappresentare un mondo che si sta spegnendo sempre di più e raccontare attraverso l’arpa quello che sarà il dopo, un mondo dove non esiste più niente. Anche nell’album sperimentale ho fatto questo video abbastanza inquietante con dei fucili, rappresentando il momento prima dello sparo, con il mirino che c’entrava e poi cambiava visione.
E anche BOHÈME sarà un live show con il suono dell’arpa e le immagini dell’AI.
Sì, abbiamo creato tutto il live con l’AI ed è tutto un dialogo tra musica e immagini con un passaggio tra la prima parte dello show sul mondo che verrà.
In che modo la tua musica si rapporta con i temi riguardanti il futuro? Come il cambiamento climatico, tema ricorrente nella tua produzione.
Per me è importante rendere consapevoli gli ascoltatori di qualcosa che è ormai evidente. Quindi per quanto noi siamo convinti che un singolo non può fare niente, in realtà non è veramente così. Magari noi non ci ritroveremo in questo futuro apocalittico ma saranno le generazioni future, ma è come per far vedere: guarda siamo anche noi i responsabili di ciò che è successo. Poi penso che tanti non colgano questo aspetto. Però nel mio piccolo, con la mia arte, mi piace portare questo tipo di temi, senza esplicitarli troppo. Poi ognuno li interpreta come vuole. Mi piace lasciare uno spazio libera interpretazione.
C’è un pubblico che ricerchi quindi?
Il mio pubblico è al momento molto vario, dai più giovani ai più âgée, perché penso che molte volte non si rendano conto di cosa stanno andando a sentire. Chiaro che poi è selezione naturale: uno va, ascolta e capisce poi se gli piace o no. Però quello che vorrei è prendere un pubblico di nuove generazioni, perché quello che sto facendo con l’arpa è anche cercare di sdoganarla un po’ in modo contemporaneo. In una band c’è chitarra, basso, batteria: perché non potrebbe esserci arpa, basso batteria? L’idea che smetta di essere uno strumento noioso. Poi è successo però che mi stupiscano di più le persone di una certa età. Ad esempio, ho fatto un concerto a Parigi e c’era una signora molto anziana che è venuta a sentirmi, per caso. Avrà avuto circa 93 anni. Non mi conosceva ed è venuta a dirmi che è stata contenta di aver ascoltato questa cosa prima di morire. Questa cosa mi ha colpito e mi ha fatto pensare: se una persona di una certa età riesce a cogliere quella che è un’evoluzione, allora forse sto facendo nel modo giusto. Perché il mio è un progetto dove non canto, è musica difficile. Penso che molte persone con la musica abbiano bisogno di sentirsi accolti o protetti, mentre la mia ti disturba già dal fatto che io ti sto presentando un’arpa che non è quella che pensi. È un percorso lungo, lento, ma radicato. Mi piace questo, non ho mai sentito la paura o il desiderio di andare veloce. Una cosa del genere ha bisogno di tempo per essere compresa e se vai veloce non rimarrà.
Uno dei nuovi singoli dell’album Für Therese è una rivisitazione del celebre brano Per Elisa di Beethoven, che parte dall’ispirazione che fu un errore di trascrizione e che non esistesse in realtà nessuna Elise. La vera amata era Therese. Che l’arpa sia la Therese dei nostri giorni, dimenticata e lasciata un po’ a quell’idea antica?
Sì, in questo brano mi piaceva molto la storia. È un brano molto ascoltato e conosciuto e non è da me fare brani hit. Mi piaceva però il fatto che questo brano lo conoscano tutti come Per Elisa, ma in realtà è molto probabile che non sia stato dedicato a lei. Ho pensato che se mi fossi messa nei panni della vera amata io soffrirei tantissimo e quindi ho pensato di farlo con l’arpa distorta, come per accentuare un errore.
Parlando invece delle tue origini, hai iniziato a suonare l’arpa a 6 anni. Cosa ti ha portato a scegliere questo strumento e poi nel tempo a decostruirlo? E quanto ti è costata questa scelta non convenzionale e questi tempi lenti di cui parlavi prima?
Ero piccolissima ed è stato proprio un colpo di fulmine: ho visto l’arpa e mi sono innamorata. Ho iniziato con quella e non ho mai smesso. Ho fatto il percorso classico, con il primo master in arpa classica in Italia e il secondo in Svizzera. Dopodiché il problema del Conservatorio è che letteralmente conserva e non ha la visione del musicista nell’epoca moderna. Alla fine ti senti perso perché hai studiato musica per vent’anni ma poi non ci sono molte soluzioni: o insegni – cosa che a me non piace – o tenti l’orchestra o altro. Io non volevo questa cosa, però volevo vivere della mia musica. Quindi ho iniziato a intraprendere un percorso personale. L’arpa classica non mi interessava perché mi sentivo costretta a dover suonare le interpretazioni. Poi devi sempre stare attenta a non sbagliare le note e per me non è libertà. Quindi ho composto un po’ di miei brani e ho iniziato a fare ricerca con l’arpa elettrica, che è uno strumento ancora piuttosto nuovo. In realtà è un progetto che è piaciuto subito, perché comunque è una novità .
Il fatto che nei tuoi live suoni con due arpe, una classica e una elettrica, è anche un messaggio visivo importante. Mosta questa unione.
Sì, mi piace rappresentare le due sonorità. Poi è arrivato il contratto con la Sugar Music con cui ho fatto il primo album, ma ho capito che avere alle spalle una major o qualcuno che mi dicesse cosa fare non fosse la mia strada. Mi piace vivere il mio percorso e non mi interessa fare numeri, che è esigenza di certi mercati. Sapevo che se il mio percorso diventava numero moriva subito. Con un’arpa fai presto: una bella ragazza, un bel vestitino. Vai nelle discoteche e fai musica per aperitivo. Ma io voglio fare tutt’altro. Io ora vivo solo di musica, di concerti e di ricerca.
Con il concerto sold out alla Royal Albert Hall nel 2023 hai pensato che il tuo messaggio fosse stato accolto o comunque recepito?
È stato un punto di partenza. Quando facevo il conservatorio seguivo anche delle lezioni al Royal College, che è di fronte alla Royal Albert Hall. Pensavo sempre: “Chissà se un giorno suonerò mai qua”. Perché la Royal Albert Hall per un musicista è un posto da sogno. Quando è successo mi sentivo una grande responsabilità e sentivo un uragano di emozioni. Poi il concerto è andato benissimo e le persone lo hanno accolto con gran piacere. Ho fatto l’album sperimentale che ha questa visione apocalittica e cruda della vita. Lì ho capito che quello che sto facendo arriva. Non si tratta di piacere o no, ma di un messaggio.
Quali sono le tue ispirazioni?
Continuo ad ascoltare tantissima musica classica, ma mi ispiro ad artisti come Nils Frahm, John Cage, Sakamoto. Loro per me sono ispirazioni e anche loro usano l’elettronica. Questo è il mio mondo. Siamo comunicatori di suono e non di parole. Io entro nel loro universo e sento che oscilliamo insieme.
Ora che visione hai del tuo futuro e di quello dell’arpa?
Sono positiva. So che non è un percorso che può morire. Vedo che più vado avanti e più le persone credono in quello che sto facendo, perché non cambio idea e resto radicata nel mio percorso. Poi, ripeto, è musica in cui devi essere concentrato e non distratto per capirla, ma so che è un percorso che non mi abbandonerà mai. Questa è la mia vita e lo farò per sempre. Vivere di musica non è mai facile da nessuna parte, però per il momento sta funzionando.
Credi che BOHÈME possa rappresentare un cambio di rotta rispetto alla tua produzione passata o una definizione più matura e compiuta?
Per me è un’evoluzione, perché nel primo album ho giocato con “l’arpa come una voce”: cioè l’arpa cantava ed era accompagnata dall’elettronica digitale che abbiamo fatto al computer con il mio produttore. Invece in BOHÈME tutta l’elettronica e la voce provengono dall’arpa. Questa per me è un’evoluzione perché non c’è niente di manipolato digitalmente. Poi, chiaro, abbiamo usato i pedali elettronici, abbiamo costruito…però tutto proviene da lei. Anche i suoni di voce li faccio soffiando dentro la tavola dell’arpa. Sono tutte risonanze di un solo strumento e delle sue corde.
Ci sono progetti a cui stai già lavorando?
Sì, il mio prossimo obiettivo sarà di portare l’arpa in ogni contesto musicale. Mi piace che venga sdoganata, quindi il mio prossimo album sarà un album di collaborazioni. Vorrei fare arpa e rap, arpa e questo, arpa e quest’altro, in contesti impensabili. Andrò infatti due settimane negli Stati Uniti perché sono stata invitata a partecipare, dal lato svizzero, all’International Visitor Leadership Program (IVLP) e partirò da lì con questo mio obiettivo. Appunto, una rappata con l’arpa: why not?
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!
