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Il Jobs Act, tra realtà e propaganda

7 minuti di lettura

fonte: licenziamento.org

Lo scorso 16 febbraio l’INPS ha diffuso i dati occupazionali relativi al 2015: quasi 800mila posti di lavoro “stabili” in più rispetto al 2014, una statistica che ha fatto esultare il Governo e ha consentito al Presidente del Consiglio Matteo Renzi di celebrare il successo del Jobs Act in un tweet: «+764mila contratti stabili nel primo anno di #jobsact. Amici gufi, siete ancora sicuri che non funzioni?».

La macchina della propaganda si è messa immediatamente in moto sui social network, e in occasione del secondo compleanno del Governo Renzi sono state presentate delle slides in cui sono esposti tutti i successi dei primi due anni di attività. Al netto della propaganda, tralasciando tutte le perplessità del caso sul confronto tra l’oggi e un non ben precisato “ieri”, per quanto riguarda il mercato del lavoro ci troviamo di fronte alla consueta mezza verità: se si prova a scavare giusto qualche centimetro sotto la superficie della propaganda filo-governativa, si scopre una realtà sensibilmente diversa da quella raccontata dal Governo.

Se è infatti vero che, nel primo anno del Jobs Act, i contratti a tempo indeterminato attivati sono stati 764mila, il saldo tra assunzioni e cessazioni (dunque, il numero effettivo di nuovi contratti) è pari a 186mila unità: 578mila sono infatti trasformazioni di precedenti contratti, un dato sicuramente migliore di quello degli anni 2014 e 2013 ma inferiore a quello del 2012 (+600mila trasformazioni), un anno considerato di recessione economica rispetto al “miracoloso” 2015.

186mila occupati in più sono un dato positivo, non c’è alcun dubbio: a prescindere dal fatto che il “contratto a tempo indeterminato” del Jobs Act è in realtà un contratto estremamente precario (può essere sciolto in qualsiasi momento dal datore di lavoro, col solo indennizzo economico), sul saldo occupazionale c’è da essere contenti. La questione è semmai quanto abbiano influito i fattori esterni al mercato del lavoro (dati macroeconomici positivi, dal Quantitative Easing della BCE al basso prezzo del petrolio al cambio favorevole dollaro – euro alla leggerissima ripresa mondiale) e quanto, soprattutto, le decontribuzioni presenti nella Legge di Stabilità 2015 (che, secondo le stime, per ora ci sono costate 12 miliardi di euro).

In altre parole: il mercato del lavoro italiano ha davvero imboccato un trend positivo, grazie a fattori endogeni, oppure ci troviamo di fronte a una bolla occupazionale? E ancora: il Jobs Act è riuscito ad invertire la tendenza dominante nel sistema economico italiano, e cioè la progressiva precarizzazione del lavoro, come sostiene il Governo?

Al riguardo, è possibile esprimere un’opinione e presentare un fatto: l’opinione di vari economisti, tra cui Luca Ricolfi (ne ha parlato in un’intervista al Fatto Quotidiano), è che la ripresa occupazionale sia dovuta alle decontribuzioni ed alla modesta ripresa del PIL (+0,8% nel 2015) piuttosto che alla riforma del mercato del lavoro, e che si dovranno aspettare due anni per vederne i reali effetti. Le prime risposte saranno disponibili a partire dal prossimo maggio, quando usciranno i dati sul primo trimestre del 2016, ma soltanto a fine 2017 saremo in grado di capire se lo Stato italiano ha regalato o meno miliardi di euro pubblici agli imprenditori pur di avere in cambio dei dati congiunturali positivi.

Il fatto, invece, riguarda un provvedimento finora passato sottotraccia: il Decreto Poletti del 2014, la più grande liberalizzazione dei contratti a termine da anni a questa parte, permettendo molteplici rinnovi dei contratti “precari”. In questo senso, se si va a leggere i dati, si nota come il saldo dei contratti a termine nel 2014 sia pari a +420mila unità, molti di più dei 186mila a tempo indeterminato, e come il tasso di occupazione precaria (che misura l’incidenza dei contratti a termine sul totale dei contratti) abbia raggiunto il 14%, il dato più alto da quando esiste questa statistica: a dimostrazione del fatto che il Jobs Act non ha affatto invertito la dinamica profonda del mercato del lavoro (la progressiva precarizzazione occupazionale, che investe soprattutto i giovani).

Sotto la superficie della propaganda, dunque, emerge una realtà molto più cupa: senza l’intervento dei fattori esogeni (che, secondo molti studiosi, hanno pesato sul PIL italiano con un +1%) ed il contributo delle decontribuzioni, molto probabilmente il PIL italiano sarebbe calato anche nel 2015 ed avrebbe trascinato con sé le statistiche del mercato del lavoro.

Tutta colpa del Governo Renzi, dunque? No, perché appare ingiusto (e valido soltanto sul piano della contro-propaganda) addossare le colpe dell’attuale stato di salute dell’economia italiana e del mercato del lavoro a un Governo in carica da poco più di due anni. Se si possono attribuire delle “responsabilità” (volutamente tra virgolette, dato che colpe nel vero senso della parola non sono) è sul piano dei continui proclami e della creazione di aspettative che vanno poste, in quanto l’attesa del “miracolo” è prodotta dalla politica stessa: l’opinione pubblica un minimo consapevole e informata, in questo periodo storico, non ha certo pretese clamorose nei confronti dei governi, e forse un po’ più di onestà intellettuale da parte della nostra classe dirigente aiuterebbe a ridimensionare le aspettative ed attutire così il colpo di eventuali dati congiunturali negativi, portando piano piano l’opinione pubblica a guarire dalla mania dei risultati “tutti e subito”.

Se son rose, fioriranno presto; se il Jobs Act ha invece fallito, lo scopriremo altrettanto presto. Nel frattempo, un po’ meno di propaganda chiassosa ed un po’ più di prudenza aiuterebbero la crescita della consapevolezza nell’opinione pubblica e metterebbero il Governo al riparo da tante critiche ingiuste.

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Niccolò Biondi

25 anni, laureato in Filosofia, attualmente studia Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Firenze, città in cui abita.

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