Prosegue la nostra carrellata nella storia dell’arte, dalle testimonianze dell’epoca romana fino all’arte del ‘900 e a quella contemporanea: espressioni diverse che hanno come tema comune la rappresentazione del paesaggio, trattato, di volta in volta, nel corso dei secoli, come dato oggettivo, come simbolo – religioso o laico – oppure come stato d’animo.
CLAUDE MONET, La Grenouillère, 1869, olio su tela 79×99 cm, New York, Metropolitan Museum
PIERRE-AUGUSTE RENOIR, La Grenouillère, 1869, olio su tela, 66×81 cm, Stoccolma, Nationalmuseum
«Com’è difficile capire, nel fare un quadro, qual è il momento esatto in cui l’imitazione della natura deve fermarsi. Un quadro non è un processo verbale. Quando si tratta di un paesaggio, io amo quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci dentro per andarci a spasso».
Pierre-Auguste Renoir
Nelle due tele, è possibile mettere a confronto Claude Monet e Pierre-Auguste Renoir. Nel luglio del 1869, i due artisti avevano deciso di recarsi insieme sulle sponde della Senna, appena fuori Parigi, in un locale molto alla moda dell’epoca, La Grenouillère, sulla cui pedana galleggiante si ballava e si conversava, e il cui nome derivava dal gracidare delle rane che abitavano nell’ambiente circostante.
È una pittura soggettiva, quindi la partenza è la stessa, tutti e due si mettono nello stesso punto, o comunque molto vicini tra loro, per cogliere lo stesso scorcio di paesaggio, ma la resa è indubbiamente diversa, sia nelle scelte compositive, nell’inquadratura, sia soprattutto nella realizzazione. Questo dimostra che, a mano a mano che ci si avvicina al nostro tempo, la pittura si svincola dalle regole compositive e di stesura pittorica, e diventa molto libera, diventa traduzione di uno stato d’animo, diventa espressione di se stessi.
Monet ha un segno molto corposo, usa pennellate grandi e spezzate. Renoir ha una mano molto delicata, e ama soprattutto le tonalità pastello molto chiare e luminose, e questo è dovuto agli esordi nell’arte quando da giovanissimo iniziò come decoratore di porcellane. Il primo piano ha pennellate grandi, in secondo piano il tratto, per dare l’idea della distanza, diventa quasi puntinista, quando il puntinismo, in quegli anni, ancora non esiste o non è pienamente maturato.
VINCENT VAN GOGH, Campo di grano con corvi, 1890, 50,5×103 cm, Amsterdam, Rijskmuseum
«Briciole di grano, il vento le violenta al mio passaggio, la strada è segnata, la percorro verso il nuovo domani, insieme ai neri corvi miei compagni, lascio la luce per il buio in cui mi annullo».
Vincent Van Gogh
Con Van Gogh si arriva al paesaggio come stato d’animo. Guardare un quadro di Van Gogh, è come leggere una pagina del suo diario o una delle tante lettere che ha scritto al fratello Théo fino alla morte. Questa è l’ultima sua tela, quella che ha dipinto quando si trovava ad Auvers-sur-Oise, nel nord della Francia, poco distante da Parigi, luogo in cui era andato, dopo essere stato ricoverato un anno in un manicomio in Costa Azzurra, sperando di essere accudito o forse salvato dal dottor Gachet che praticava l’omeopatia e che era molto amico dei pittori più sfortunati, quelli che navigavano in cattive acque perché non riuscivano a trovare un mercato. E Van Gogh era uno tra quelli, visto che in vita aveva venduto un solo quadro. A posteriori possiamo dire perché: le sue opere hanno una componente soggettiva che predomina. Questo quadro non descrive la realtà oggettiva ma descrive la realtà che Van Gogh ha dentro, o comunque come lui la vede.
Van Gogh si uccise, nel luglio del 1890, sparandosi un colpo di pistola al fianco, morì dopo ore di agonia nel letto della camera d’albergo ad Auvers. Nell’ultima lettera – mai spedita – al fratello, ritrovata nella tasca della sua giacca, l’artista non esprimeva esplicitamente il proposito del suicidio ma comunicava al fratello una sensazione forte di malinconia e di solitudine che, di nuovo letta a posteriori, può far presagire il suo gesto.
Questo quadro che ha colori vivacissimi e brillanti in realtà è stato per lui un modo per manifestare la sua condizione interiore, usando pennellate corpose, materiche. C’è un fondo rosso sul campo di grano sul quale distende pennellate di giallo oro in modo spezzettato e con andamenti diversi. Il cielo è di un blu cobalto, un blu profondissimo, molto innaturale visto che siamo in pieno giorno. Lo stormo di corvi è realizzato con pennellate veloci di nero, non si tratta di una descrizione di volatili con le ali spiegate. Proprio quelle macchie di nero sono la nota negativa di questo quadro, ma i colori sono brillantissimi. Van Gogh, con la forza dei colori, cercava di comunicare quello che non riusciva a dire a parole, quell’energia che aveva dentro che non riusciva a trasmettere agli altri e condividere con gli altri.
EDVARD MUNCH, Malinconia, 1893, Oslo, Munch Museet
Munch, insieme a Van Gogh, è stato precursore dell’espressionismo. Questa è un’opera che prende spunto da una vicenda autobiografica che lui racconta. Un giorno si è ritrovato a passeggiare su di un fiordo e ha intravisto con la coda dell’occhio una coppia di innamorati sul molo. Lei, a prima vista, gli aveva ricordato la donna con cui aveva avuto la sua unica storia. Questa visione, così veloce e rapida, gli provoca un sentimento di profonda malinconia che decide di descrivere. Munch è un grande poeta ma è anche altrettanto bravo pittore perché trasferisce nella pittura il proprio stato d’animo, indipendentemente dalla tecnica, ma con il valore aggiunto di una forte componente soggettiva.
In primo piano c’è la sagoma di un uomo pensieroso, che ovviamente possiamo pensare trattarsi di Munch, ma le linee di quel profilo corrispondono alle linee ferme dei sassi, c’è la stessa immobilità. Sembra un sasso, è scuro come gli altri che gli stanno vicino, come l’arenile che diventa nero perché è in ombra ed è coperto dalle alghe bagnate. I colori dominanti sono il nero, l’ocra e l’azzurro freddo, glaciale: è l’azzurro della melanconia.
GIORGIO MORANDI, Paesaggio (Bologna, 1890-1964)
Primi anni del ‘900. I paesaggi di Giorgio Morandi non sono propriamente ritratti dal vero: dipinge spesso dalla finestra di casa, utilizza un cannocchiale per cogliere i particolari che ad occhio nudo sfuggono ma che hanno assoluta importanza nella ricostruzione della natura. Nei suoi paesaggi, come questo, non c’è presenza umana, però c’è sempre qualcosa che la evoca e la ricorda. Sono realizzati negli anni ’20, subito dopo la guerra, e confermano la presenza dell’uomo anche se non lo fanno vedere, proprio nel periodo in cui si tenta, piano piano, una ricostruzione, una rinascita. Lui ama definire i suoi quadri “paesi”, non paesaggi, quindi implicitamente dà una condizione di presenza umana: i paesi sono abitati così come i suoi paesaggi, paesaggi minimalisti che riprendono dal bagaglio culturale di Morandi, la cultura figurativa di Piero della Francesca, della prospettiva del primo ‘400. Parte da lì e rielabora le nozioni della grande storia dell’arte del Rinascimento, le rende essenziali.
A lezione di Storia dell’Arte con la prof.ssa Daniela Olivieri • Cengio (SV), 3ª Stagione Culturale
[jigoshop_category slug=”cartaceo” per_page=”8″ columns=”4″ pagination=”yes”]
[jigoshop_category slug=”pdf” per_page=”8″ columns=”4″ pagination=”yes”]