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La politica in un convento: il “doroteismo”

La storia della Prima Repubblica è stata segnata dalla Democrazia Cristiana e dalle sue correnti. In particolare, un incontro segreto in un convento portò alla nascita dei "dorotei". Chi erano? E che ruolo hanno avuto?

5 minuti di lettura

Il sistema politico italiano del secondo Novecento è stato indissolubilmente legato ai partiti, che lo hanno modellato e conservato nei decenni. Alla superficiale contrapposizione pluralista del bipolarismo imperfetto tra DC e PCI, però, la Prima Repubblica è stata un sistema fragile, dominata com’era da un contesto storico più grande di lei, e da una politica sotterranea che ha avuto, nelle sue fosche tinte, un fascino di finzione e onirismo, influenzata nell’ombra da una machiavellica ragion di stato.

L’eredità di De Gasperi

Gli anni Cinquanta segnarono la fine dell’età degasperiana che, idealmente, voleva protrarsi oltre il proprio fautore. Nella visione del primo segretario della Democrazia Cristiana c’era stata, infatti, la volontà di consolidare una maggioranza di governo centrista, abbastanza larga da escludere sia le destre che le sinistre. Condizione che cercò di realizzare alle elezioni del 1953 attraverso una legge elettorale (allora soprannominata dalle opposizioni legge truffa) che premiava con un lauto premio di maggioranza quel blocco che avrebbe raggiunto metà dei voti. Quell’anno lo schieramento centrista arrivò a pochi decimi dal riuscirci. Ciò che si prefigurò da quel momento fu la cronica relatività della maggioranza democristiana, la quale riuscì solo a formare esecutivi dalle risicate maggioranze e sempre appesi ai più piccoli spostamenti politici. Il problema che la DC doveva affrontare, se avesse voluto continuare a rappresentare l’unico partito di maggioranza, sarebbe stato quello della governabilità. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dunque, la Democrazia Cristiana giunse a un bivio nel tentativo di rinnovare sé stessa e il sistema politico italiano che intendeva continuare a guidare.

La prima pagina dell’Unità, al tempo giornale del PCI, riporta l’esito delle elezioni del 1953 e il mancato “scatto” del premio di maggioranza.

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La politica sotterranea: chi erano i dorotei?

Nel 1959, una parte della dirigenza si riunì, defilata e nell’ombra, nel convento delle suore di Santa Dorotea a Roma. Quelli che vennero poi definiti “dorotei” si incontrarono per tracciare una nuova linea che rompesse con il passato degasperiano e che esorcizzasse, o mettesse sotto controllo, un futuro sentito nell’aria, ma che si sarebbe realizzato solo ad anni Sessanta inoltrati: l’apertura alla sinistra. Propugnatrice di quest’ultima idea era l’ala riformista del partito di cui era esponente l’allora segretario e primo ministro Amintore Fanfani, che intendeva risolvere il problema dell’ingovernabilità attraverso un allargamento della maggioranza. La riunione segreta ed esclusiva nel convento, seguita da una serie di rivolgimenti interni, aprì a “un colpo di mano” appoggiato anche dalla fazione conservatrice della DC, portando alle dimissioni di Fanfani sia dalla segreteria che dall’esecutivo. In sostituzione, si susseguirono governi monocolore che, per la prima volta dal secondo dopoguerra, si reggevano sul supporto esterno del Movimento Sociale Italiano e dei partiti monarchici. In altre parole, la soluzione dei dorotei era speculare a quella dei riformisti: la crisi di governabilità andava affrontata da un allargamento della maggioranza, ma per arginare la sinistra radicale non doveva essere ammessa neanche quella moderata, bensì era necessario puntare verso destra e al post-fascismo, posizioni fino ad allora emarginate, ma tollerate. I governi Segni (1960) e Tambroni (1961), sulla scia del doroteismo e in nome del contenimento oltranzista alla sinistra, non riuscirono tuttavia a impedire la spinta – o piuttosto, la necessità – riformista della DC. Fanfani tornò al governo nel 1962 con l’appoggio esterno del Partito Socialista e, dalle elezioni del 1963 in poi, venne definitivamente aperta la stagione del centro-sinistra. La realizzazione del temuto presagio incontrò la spaccatura della DC, la cui parte conservatrice (dorotei tra gli altri) cercò di porre un contrappeso alla presente situazione istituzionale.

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Antonio Segni, quarto presidente della Repubblica

Nel 1962, ancora durante il governo Fanfani, venne eletto alla presidenza della Repubblica Segni, tra i grandi esponenti del doroteismo, grazie a una maggioranza opposta a quella che sosteneva l’esecutivo di Fanfani. Segni salì al Quirinale, infatti, coi voti sotterranei dell’MSI, mentre Fanfani si reggeva sul supporto del PSI. Uno strano caso di coabitazione inedito nella storia repubblicana, dove la presidenza della Repubblica fu espressione del centro-destra, mentre quella del Consiglio di centro-sinistra. L’esperienza programmatica del centro-sinistra, a capo della quale si era posto Aldo Moro come mediatore (doroteo anch’egli, in origine), si esaurì in un quinquennio e riportò la DC allo stesso problema di ingovernabilità che si era creato alla fine degli anni Cinquanta, stavolta con la delegittimazione della sinistra riformista e la riscossa del PCI. Scenari che acuirono ancora di più quel timore sotterraneo, quel contrappeso che già dal 1959 faceva valere un’insondabile ragion di stato, e che negli anni Settanta si esercitava con la forza e latenti golpe.

Todo modo para buscar la voluntad divina

Sant’Ignazio da Loyola

L’atmosfera di quella stagione politica che durò vent’anni è racchiusa simbolicamente in quell’appartato e segreto incontro al convento. Noi non sappiamo esattamente che cosa si disse in quel luogo in quel momento: possiamo solo intuirlo guardando ciò che avvenne dopo. Qualcuno, però, cercò di immaginarselo. Se non riferendosi direttamente all’incontro del 1959, quanto meno a ciò che tale evento, assieme ad altri, rappresentava. Il racconto Todo Modo (1974) di Leonardo Sciascia lo fa velatamente, ma la sua trasposizione cinematografica (1976) di Elio Petri non conosce mezze misure. Quest’ultimo è stato, forse, uno dei manifesti artistico-politici più duri della storia repubblicana, per l’associazione diretta a fatti e a persone esistenti e influenti. Ciò che il regista cercò di fare, ancor più dello scrittore, fu quello di rappresentare un certo aspetto oscuro, esoterico del potere, votato al servizio di una causa non meglio precisata, ritirandosi dal mondo e dalla storia per assolvere il proprio fine. L’allontanamento della classe dirigente dal mondo e il suo inserimento in un luogo lontano, estraneo, era un tema presente anche nell’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), di poco precedente a quello di Petri, il quale gli fa quasi da sequel.

Marcello Mastroianni, nei panni di Don Gaetano, e Gian Maria Volonté, nei panni del “presidente” (caricatura di Aldo Moro), in Todo Modo di Elio Petri

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Ma Todo Modo è un’opera che parla del suo presente e lo fa lasciando percepire un senso di apocalisse, di fine annunciata. L’altro tema del film, infatti, non è solo la segretezza, l’onirismo o la depravazione del potere che si ritira appartato lontano dalle istituzioni e dalla storia, ma anche la sua necessaria autodistruzione. Petri aveva inteso, come probabilmente altri in quel momento, che quell’epoca di tensione sotterranea, su cui galleggiava fragile la repubblica democratica, stava giungendo al termine, e che non poteva non farlo che con l’epurazione interna di alcuni esponenti che l’avevano rappresentata. È per questo che il film si conclude con la morte del personaggio interpretato da Gian Maria Volonté, ossia Aldo Moro, ultimo decesso di una serie di delitti che riempiono il giallo d’autore. Due anni più tardi, in uno strano caso in cui la realtà copia la finzione, o viceversa, Moro venne rapito e, infine, ucciso. Finiva in tragedia il tentativo del compromesso storico, così come quella parte riformista della DC che l’aveva teorizzato. Conseguenza della crisi di governabilità che attanagliava la Prima Repubblica e il suo partito di governo sin dalla fine di De Gasperi, spaccando la Democrazia Cristiana in due correnti che, intente allo stesso obiettivo, volevano cambiare per riaffermarsi. Questa l’intuizione di Petri, che attraverso Sciascia aveva rappresentato la palingenesi del potere, il martirio e il capro espiatorio politico.

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Alessandro Maria Radice

"Il mio nome è Legione, poiché siamo in molti": classe 2002 e vago storico, ma anche osservatore di tutte quelle arti che cerco, indebitamente, di fare mie.

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