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“The Truman Show” e la verità
in una realtà inventata

9 minuti di lettura

I film, come i libri, si dividono in due grandi categorie: quelli a cui ci si può dedicare con tranquillità e un po’ di pigrizia, magari in una sera d’estate con in mano una bibita fresca, e quelli che richiedono la massima concentrazione. Prendiamo, tanto per fare un esempio, l’indimenticabile Blade Runner: fin dalla prima inquadratura si capisce che questo è il tipo di film di cui non ci si può perdere nemmeno un fotogramma se si vuole sperare di capirlo e, anche così, il successo è tutt’altro che assicurato. Poi ci sono film con un ritmo così lento e sereno che sembrano fatti apposta per farci rilassare; e invece arriviamo alla fine con un vago senso di turbamento e non siamo in grado di dire altro che «Wow!» perché quel film così tranquillo ci ha dato davvero parecchi motivi per riflettere. Questo è il caso di The Truman Show.

Truman Show

The Truman Show (1998) è un film di Peter Weir, con Jim Carrey nel ruolo del protagonista Truman. Dimenticate il personaggio un po’ idiota di The MaskAce Ventura: qui l’attore se la cava benissimo in un ruolo drammatico accostabile a quello che interpreterà qualche anno dopo in Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Le straordinarie interpretazioni di Jim Carrey ed Ed Harris, che interpreta Cristof, il regista e “creatore”, sono valse a entrambi un Golden Globe e contribuiscono a rendere The Truman Show un film di straordinario e insospettabile spessore.

A cominciare dal titolo del film e dai titoli di testa fittizi, l’intento del regista è quello di proiettarci in un mondo a noi ormai ben noto: quello dei reality show. Il Truman Show, infatti, è un esperimento mai tentato prima: un reality show in cui la vita di un uomo, Truman appunto, viene ripresa 24 ore su 24 fin dalla sua nascita, senza che lui lo sappia. Il mondo intorno a lui è uno studio cinematografico e le persone che lo circondano – i genitori, gli amici, la moglie – non sono altro che attori, con il compito di indirizzare le scelte di Truman secondo il volere del regista dello show, Cristof.

Truman ha trent’anni, una moglie e un lavoro da impiegato ed è inconsapevole del fatto che la sua vita venga seguita in diretta da tutto il mondo. Fino a quando una mattina, uscendo di casa, un faro per l’illuminazione scenica si schianta al suolo di fronte alla sua casa. Da quel momento, Truman inizia a notare una serie di particolari che lo insospettiscono e a rivedere episodi del suo passato che prima non era stato capace di spiegarsi, tra cui l’incontro con una ragazza, Sylvia, che aveva tentato disperatamente di avvertirlo che «È tutto finto!». La situazione giunge a un punto di non ritorno quando ricompare il “padre” di Truman, che i registi avevano fatto morire in mare in modo da procurare un trauma nel bambino e impedirgli di lasciare l’isola-set. Truman non ha più dubbi e, per ribellarsi a chi lo ha costretto a una vita di prigionia, decide di fuggire. La scena finale è estremamente toccante: Cristof interviene direttamente e parla con il protagonista, invitandolo a rimanere nel mondo da lui creato, molto più sicuro di quello reale e altrettanto vero. Ma Truman pronuncia la sua battuta più tipica, fa un inchino ed esce dal set attraverso una piccola porta.

Truman Show 2

La trama è molto semplice, il ritmo è lento (ma non noioso) e, in pratica, non succede nulla di eclatante nei 90 minuti prima del finale. Che cosa rende, quindi, The Truman Show un film così straordinario?

Il grande merito di Peter Weir è stato quello di prevedere l’enorme impatto che i reality show avrebbero avuto sul nostro modo di guardare la televisione e di percepire la realtà; meno di due anni dopo l’uscita del film, in Italia sarebbe arrivata la prima edizione de Il Grande Fratello, la cui ultima puntata ha sfiorato il 60% di share. È illuminante la spiegazione di Cristof all’inizio del film: i reality show sono nati perché la gente era stanca della finzione e perché degli attori, per quanto bravi, non avrebbero mai potuto essere più veri di ciò che è vero. Ed è anche la spiegazione che il regista fornisce a Truman alla fine: «C’era qualcosa di vero?», «Tu eri vero». Ma quanto può esserci di vero in una vita in cui tutto viene plasmato da qualcuno che ha già deciso “come andrà a finire” (questo è lo slogan del programma)?

È quello su cui Truman si interroga e, in fondo, è la stessa domanda che ci poniamo tutti quando ci soffermiamo sulla questione del libero arbitrio. La caduta del faro di illuminazione è per il protagonista un pirandelliano “squarcio nel cielo di carta”, un evento che distrugge la sua illusione di una vita normale; da lì ogni scoperta è un passo verso la verità e Truman sceglie consapevolmente di non fermarsi mai. Come sceglie, una volta giunto letteralmente alla fine del (suo) mondo, di non rimanere sull’isola creata per lui, ma di vivere nel mondo reale. Una volta raggiunta la verità, non è più possibile per lui tornare a vivere come prima: ogni cosa è vera solo fino a quando si è convinti che lo sia.

Dall’altra parte, invece, nascosto dietro un sole artificiale ma pieno di significato, c’è la contraddittoria figura del creatore Cristof. Già solo il suo nome sarebbe sufficiente a richiamare l’idea della divinità: giocando a fare Dio, Cristof decide ogni particolare della vita di Truman e in pieno delirio da onnipotenza arriva quasi ad ucciderlo per impedirgli di lasciare il suo mondo. Ma il regista prova anche un amore infinito per Truman, che ha seguito in ogni istante della sua vita, come afferma con voce commossa nella scena finale. Come ogni padre – e ogni dio? – Cristof è convinto di poter plasmare il futuro migliore per suo figlio ed è disposto anche a negargli il libero arbitrio pur di riuscirci.

Con la sua sceneggiatura ironica e divertente, The Truman Show non risulta mai pesante e, anzi, neppure sembra un film che può insegnare qualcosa. Alla fine, però, ci lascia, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, la sensazione malinconica di aver assistito ad una storia che potrebbe essere la nostra. In questo senso, è davvero un reality show.

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Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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