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Catoblepa: origini storiche del declino dell’Italia repubblicana

Un animale immaginario, leggendario, con una testa tanto pesante da costringerlo a volgere lo sguardo sempre a terra. Che cos'è il Catoblepa? E cosa c'entra con la storia economica d'Italia?

8 minuti di lettura

Nella storiografia economica d’Italia resta celebre – almeno nella nicchia in cui è stata utilizzata – l’immagine del Catoblepa: un animale immaginario, leggendario, che antichi greci e romani credevano vivesse in Africa. Era, secondo le loro descrizioni, un quadrupede, un bovino, con una testa tanto pesante da costringerlo a volgere lo sguardo sempre a terra. Questa espressione era stata rielaborata da un importante e spesso sorvolato personaggio della storia moderna d’Italia, Raffaele Mattioli, che aveva chiamato “Catoblepismo” quel fenomeno economico che si fondava sull’indissolubile legame tra settore industriale e bancario, il quale portò, nel 1930, quasi al collasso totale dell’economia italiana. L’immagine del Catoblepa, a detta sua, si confaceva a quel modello in quanto lo raffigurava come intimamente autoreferenziale, incapace per ragioni strutturali di riformarsi e con effetti disfunzionali a lungo termine. Era l’immagine, in altre parole, di un sistema che conteneva al proprio interno, in modo che si cristallizzassero, le ragioni cicliche della propria rovina.

Quel termine Mattioli lo usò per descrivere un fenomeno economico ben preciso nella storia d’Italia, ma l’immagine del Catoblepa è, in verità, molto efficace se accostata anche a un principio più ampio, a una costante sistemica della storia economica italiana. Un Catoblepismo “allargato” può essere ricercato in alcune delle antiche ragioni del declino economico dello stivale anche in età repubblicana, persino in tempi insospettabili come fu il secondo dopoguerra fino agli Settanta del Novecento.

Il volto nascosto del Catoblepa: ragioni passeggere del boom economico

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, per tre decenni, l’Italia crebbe più di molti altri paesi occidentali. Fu un caso di successo, frutto di opportunità effettivamente raccolte. Se si vuole capire, però, cosa andò storto (o perché d’un tratto le cose iniziarono ad andare sempre peggio) bisogna guardare al boom che fu con lenti laiche e critiche. Ricordandosi di quanto di buono si fece, c’è da ammettere che la crescita avvenne per una congiuntura di fattori interni ed esterni particolarmente favorevoli e, per forza di cose, passeggeri. Anzitutto, l’Italia che usciva dalla guerra era un Paese ancora agricolo. Con le riforme agrarie e lo sviluppo della produttività della terra, i campi si spopolarono, generando un grosso flusso migratorio dal mezzogiorno alle regioni già industrializzate. Per tale ragione la nascente industria italiana poteva usufruire di un bacino di manodopera sempre consistente, a basso costo e poco sindacalizzata. Una condizione favorevole che permetteva ai prodotti italiani di essere competitivi sui mercati appena aperti grazie agli accordi internazionali sul commercio (GATT). Il piano Marshall e il patto atlantico, oltre all’integrazione europea, garantivano un consolidamento di tale status quo, accesso facilitato ai mercati e un costante flusso di capitali in entrata. Ma la manodopera a basso costo e il contesto internazionale favorevole non spiegherebbero il successo – anche se c’è da dire che furono condizioni necessarie – se non si tenesse in conto il tasso di reinvestimento dei capitali, che in Italia si riversarono in modo decisivo sulle attività produttive. A garantire questo fenomeno ci pensò la Banca d’Italia sotto la presidenza di Donato Menichella, che garantì tassi di sconto bassi, una bassa inflazione e bassi rendimenti sui titoli di debito, incentivando il capitale a investimenti sulle ben più redditizie attività produttive. Questa dinamica (alta disoccupazione, bassi rendimenti, bassa inflazione, basso debito) è da tenere a mente per i tempi successivi.

Alcune ragioni del modello italiano della piccola e media impresa

Quando in introduzione si accennava al Catoblepismo di Raffaele Mattioli, si faceva riferimento al fenomeno per cui il sistema creditizio italiano aveva generato una distorsione nei rapporti col mondo produttivo e industriale. Quel che Mattioli notava era che le banche italiane, similmente a quelle tedesche, avevano sviluppato una specie di “fratellanza siamese” con le imprese, partecipandovi e finanziandole allo stesso tempo. Era il chiaro fenomeno delle banche universali, o miste, che combinano la funzione commerciale (cioè di deposito) a quella d’investimento. Il peccato originale di questa commistione senza supervisione venne a galla quando nel 1929 il crollo del mercato azionario portò al conseguente e congiunto crollo del sistema creditizio e industriale. Negli USA a tale evento seguì il varo del Glass-Steagal Act, mentre in Italia la Legge Bancaria del 1936, detta Legge Menichella. Obiettivo di tali disposizioni era, di fatto, la disgiunzione tra le due funzioni della banca, tra quella commerciale e di deposito e quella d’investimento. La Legge Menichella, nella fattispecie, creava una separazione tra banche a breve termine (credito ordinario) e a lungo termine (credito industriale).

Donato Menichella, economista e governatore della Banca d’Italia (1948-1960)

Questo assetto rimase grosso modo in vigore fino al 1993, quando il Testo Unico Bancario voluto dal Governo Dini reintrodusse il concetto di banca universale di diritto privato. Lo sviluppo economico del Secondo dopoguerra e dell’età repubblicana novecentesca, dunque, ebbe a che fare con un sistema creditizio che giocava alle regole sancite nel 1936. Questa premessa è importante per capire quale ordine socioeconomico favorì lo sviluppo in Italia, parallelo alla grande industria, del modello della piccola e media impresa. Ai piani alti del settore secondario, il capitalismo italiano progredì assieme alla pianificazione statale e a un sistema creditizio a lungo termine rilevato da enti a partecipazione pubblica come Mediobanca, dando origine a quel “salotto buono” della grande impresa che avrebbe cristallizzato gli equilibri all’interno di una cerchia ristretta. Sul fronte “basso”, invece, il tessuto produttivo si affidava su una rete di banche popolari ed enti consortili, coadiuvati dai mediocrediti, che per dimensione non erano preposte al credito di lungo periodo, bensì a quello ordinario. Il rapporto che esse svilupparono con le piccole e medie imprese fu però di tipo fiduciario e informale, spesso intessuto negli equilibri locali in cui subentravano camere di commercio e le ramificazioni dei grandi partiti nazionali. Questo meccanismo fece sì che il credito ordinario venisse garantito non secondo consuete logiche di merito, ma su una cultura del rapporto personale e spesso consociativa. E l’ecosistema produttivo locale unì la frammentazione del capitale a una competitività quasi annullata.

Il volto svelato del Catoblepa: i passi del declino

Fino a che la congiuntura favorevole del Dopoguerra durò, l’Italia crebbe molto e senza particolari flessioni. Già dalla metà degli anni Sessanta, però, le cose iniziarono a cambiare. Anzitutto, l’Italia era diventata un paese industrializzato ed era stata raggiunta la piena occupazione. Con un bacino di manodopera sempre più stretto, i salari, che erano rimasti piuttosto stabili negli anni Cinquanta, iniziarono per la prima volta a crescere rapidamente. Il benessere aumentava e l’Italia doveva trovarsi pronta a fare un salto di qualità, poiché per mantenere costante la crescita non avrebbe più potuto fondarsi sul modello economico precedente. Quel che il paese avrebbe necessitato, a quel punto, sarebbero stati investimenti che innovassero il sistema produttivo e lo specializzassero su settori ad alto valore aggiunto. Ma quello che accadde fu l’esatto opposto. Dalla metà degli anni Sessanta i tassi di reinvestimento dei capitali crollano e la produzione, incamerata nel fiduciario tessuto creditizio-aziendale già esistente, fu incapace di rinnovarsi. Ad aggiungersi a queste prime avvisaglie, l’Italia iniziò a fare conoscenza col debito e le finanze pubbliche. A quel periodo risalgono i primi grandi aumenti di spesa: non poteva essere altrimenti poiché l’Italia, entrata anch’essa nell’epoca dell’abbondanza e ora che ne aveva i mezzi, doveva dotarsi di uno stato sociale. Ma il passaggio a nazione moderna richiedeva riforme moderne. Una fra tutte quella fiscale, imprescindibile chiave di volta della spesa pubblica. Già nel 1951, con la riforma Vanoni, era stata estesa l’obbligatorietà della dichiarazione dei redditi. Il gettito fiscale era aumentato, ma la pressione si abbatté soprattutto sul lavoro dipendente, mentre rimase più complicato estenderla e diluirla anche al mondo d’impresa e al lavoro autonomo. Ma a quel tempo la spesa era ancora bassa (il rapporto debito/PIL era al 30%) e la crescita economica poteva far intendere, a ragione, che il problema fiscale fosse marginale. Andò consolidandosi dunque una condizione di tacita tolleranza per cui la minore pressione fiscale (del tutto informale, trattandosi di evasione) dovesse funzionare come sorta di welfare. Quando si trattò, dopo vent’anni, di riformare il fisco, la condizione di tolleranza si era resa già parecchio strutturale in una forma di mutuo supporto tra classe politica e tessuto d’impresa, quest’ultimo ulteriormente cristallizzato dalle logiche locali e dal sistema creditizio già menzionato. Così, quando la riforma Visentini del 1973 introdusse IRPEF, IVA e IRPEG, il gettito fiscale rimase ancora a carico di una certa parte della popolazione. Il debito, da qui in poi, non avrebbe più smesso di crescere fino alla metà degli anni Novanta e lo stato iniziò a combattere una vana “guerra” all’evasione, comportando in vent’anni un aumento del carico fiscale senza precedenti.

Quando s’è detto che l’Italia raggiunse la piena occupazione, s’è detto che il suo modello economico avrebbe dovuto rinnovarsi: superare la specializzazione in settori a basso valore aggiunto e approdare verso quelli ad alto valore aggiunto. Ma la cristallizzazione dell’ordine socioeconomico non lo permise. Si continuò a produrre ed esportare prodotti su cui si fa profitto attraverso il costo competitivo della manodopera. Ma con l’aumento dei salari tutto ciò divenne sempre più complesso. In aggiunta, con l’aumento dei salari, l’economia italiana, vittima delle crisi internazionali del petrolio, subì una pericolosa spirale inflattiva. Il debito aumentava e ad aumentare era anche la pressione sociale causata dal crescente costo della vita. Gli anni Settanta, probabilmente, sono stati il decennio cruciale dell’Italia repubblicana, la finestra temporale in cui è stata presa una via anziché un’altra e in mezzo a uno scenario politico-sociale instabile. È decennio di cambiamenti e divisioni, ma anche di illusioni. Nel 1975 una delle “vittorie” sindacali maggiori istituisce la scala mobile (l’adeguamento dei salari all’inflazione) a punto unico di contingenza. La storiografia economica successiva, su questo fatto, si è divisa. Ma resta la conclusione che tale dispositivo sortì due effetti: a causa della stagnazione degli investimenti e dell’innovazione, i salari, a causa dell’inflazione rampante, crebbero più della produttività; l’aumento dovette verificarsi nella grande industria là dove il lavoro era più sindacalizzato, mentre le piccole e medie imprese riuscirono a eluderne maggiormente le costrizioni. Con un ulteriore assottigliamento dei profitti, il modello economico italiano iniziò ad adagiarsi su soluzioni miopi e di breve respiro. Anzitutto, per mantenere la competitività delle esportazioni con l’aumento dei salari, l’Italia adottò la svalutazione della lira come vera e propria arma commerciale. Con una lira debole i prodotti italiani costavano meno rispetto a quelli esteri e riuscivano a mantenersi competitivi senza ulteriori investimenti e permettendo alla piccola e media impresa di tenere fissi i salari. Questo poteva accadere perché nel 1971 lo scioglimento del sistema di Bretton Woods aveva di fatto sganciato tutti i cambi valutari del mondo. Un tentativo a guida americana per armonizzare i cambi delle valute era stato fatto successivamente, ma senza particolari successi. Per evitare l’utilizzo sleale della politica monetaria in campo commerciale, nel 1979 i paesi della Comunità Economica Europea decisero di fare un’importante passo integrativo creando lo SME, il sistema monetario europeo, in cui le valute degli stati venivano fissate all’interno di una banda in cui potevano oscillare ma da cui non potevano uscire. La debolezza della lira, però, costrinse i fondatori a concederle una banda più larga. Se il marco o il franco potevano subire variazioni del ±2,25%, alla lira fu concessa un’oscillazione del ±6%. Un equilibrio che permise l’ulteriore cristallizzazione del modello economico precedente, utilizzando la svalutazione per risolvere i propri problemi strutturali. Una dinamica che coinvolse anche il debito, sempre più consistente e sempre più fragile, per il finanziamento di una spesa che guardava poco al welfare, come la sanità, riversandosi su pensioni retributive e sussidi per il mantenimento dello status quo. Se durante il boom i rendimenti sui titoli del debito rimasero bassi incoraggiando l’investimento nelle attività produttive, tra anni Settanta e Ottanta questi aumentarono sino a raggiungere la doppia cifra, garantendo sì laute cedole ai risparmiatori, ma condannando per decenni le finanze pubbliche.

Infine questo modello fatto di inflazione e debito, incancrenitosi sulle scelte strutturali prese a cuor leggero nei decenni del boom economico e ignorate negli anni Settanta, crollò negli anni Novanta. La crisi di Tangentopoli commissariò la classe politica repubblicana e in anni turbolenti il Paese, attraverso governi tecnici, cercò di cambiare la rotta. L’Italia tagliava il deficit, istituiva la pensione contributiva, metteva a bada l’inflazione, riformò il sistema bancario, aderiva al Trattato di Maastricht e successivamente alla moneta unica europea. Ma se il paese poté giovare del rinnovato contesto internazionale, mancarono riforme strutturali necessarie come quelle alla pubblica amministrazione, al mercato del lavoro e il capitalismo italiano, così come quello europeo, non sembrò entrare nel 2000 con gli strumenti per affrontare quello che sarebbe arrivato: un secolo di stagnazione.

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Alessandro Maria Radice

"Il mio nome è Legione, poiché siamo in molti": classe 2002 e vago storico, ma anche osservatore di tutte quelle arti che cerco, indebitamente, di fare mie.

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