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Il cinema palestinese tra (in)visibile e (im)possibile

dalla newsletter n. 35 - gennaio 2024

28 minuti di lettura

Assenze, dispersioni, rimossi: ma anche presenze invisibili, immagini visibili ma distorte, immagini ossessive che si impongono allo sguardo. Questo è il campo di forze conflittuali in cui si fa strada il cinema palestinese, ed è il filo conduttore che Hamid Dabashi decide di seguire in Dreams of a Nation, unico volume dedicato alla questione, con l’intento di creare un mosaico del cinema palestinese e tracciarne un’identità riconoscibile ma non per questo definita, ma sfuggente, irrequieta, tanto solida quanto precaria. Un cinema che Dabashi nell’introduzione al volume definisce thematically in/coerent e aesthetically im/possibile: tematicamente in-coerente ed esteticamente im-possibile nel suo generarsi e nutrirsi di un’assenza.

Oggi stiamo assistendo alla nascita spettacolare di un cinema nazionale, basato su una lunga storia di cinema documentario risalente Palestina pre-1948 e alla successiva dispersione dei cineasti palestinesi in tutto il mondo arabo – e questa nascita avviene precisamente nel momento in cui la nazione che la sta producendo è essa stessa negata e annullata, la sua terra ancestrale rubata da sotto i suoi piedi e occupata militarmente da bande di coloni bianchi europei e americani.

Quel paradosso non è solo il prologo del caso del cinema palestinese, ma ne è l’origine e ciò che gli dà una disposizione unica e inquietante. I registi palestinesi sognano il loro cinema – l’evidenza visiva del loro essere nel mondo in una terra proibita che è loro ma al tempo stesso non lo è. Questi sogni, di conseguenza, confinano sempre con gli incubi, la speranza che infrange le paure, e al confine di quella im/possibilità di sognare e nominare, il cinema palestinesi è reso im/possibile

Dabashi, Dreams of a Nation, p.9

Il cinema palestinese ha nella sua stessa natura un rapporto stretto con le immagini, con la loro dirompenza incendiaria di entità che prendono forma in condizioni avverse, che si rendono visibili nell’invisibilità.

Il cinema palestinese nel formarsi e nel servirsi delle immagini ne percepisce in maniera viscerale due elementi fondanti. Coglie lo stato liminale delle immagini, il loro confinare con l’impossibile e l’invisibile, ma anche la potenza creatrice. Le immagini sono capaci di sottrarsi all’assenza, al vuoto: a partire dall’impossibile e dall’invisibile sono in grado di farsi materia, per quanto intangibile, di formare una testimonianza, una memoria sparsa e frammentata, arti dispersi di un corpo espanso.

Un corpo che coincide con la terra, con il suolo e con la percezione della sua assenza: Dabashi cita come esempio di testimonianza cinematografica dell’”attivo mutamento del corpo e del suolo nel cinema palestinese” una scena di Debris (2002) di Abdel Salam Shehada.

“Ogni volta che vedo un albero che viene sradicato” dice il giovane ragazzo palestinesi alla camera mentre ricorda la scena delle ruspe israeliane radere al suolo l’oliveto dei suoi genitori, “sento una parte del mio corpo che viene strappata via”. Gli anziani rivendicano la terra con la loro memoria, mentre i loro bambini e i loro ulivi ci crescono sopra. (Dreams of a Nation, p.10)

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Sofia Racco

Classe 1999, una delle tante fuorisede in terra sabauda. Riguardo periodicamente "Matrimonio all'italiana" e il mio cuore è diviso tra Godard e Varda. Studio al CAM e scrivo frammenti sparsi in giro per il mondo.

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