Viale Trastevere avvolto da segnanti striscioni colorati, di una rabbia indomita e di voci inascoltate, ma combattive. Da un lato ci sono i blindati della Polizia, dall’altro la scalinata del Palazzo dell’Istruzione. In mezzo ci sono loro. I professori e le loro vite in bilico sul filo del precariato. Gli studenti, storica linfa vitale delle contestazioni, spettatori non indifferenti alla disfatta della loro scuola. Il personale ATA, figura troppo spesso screditata e data per scontata eppure essenziale. Appare così, lo scorso venerdì 30 novembre, la grande arteria romana, teatro per un giorno di rivendicazioni immortali.
Indetto da USB, in realtà, questo sciopero non è che l’ennesima reazione concreta in uno sciame di proteste, incominciato all’avvio dell’anno scolastico e destinato a riproporsi anche nel mese di dicembre. Dieci sono i punti chiave costituenti il sistema solare attorno alla serie di scioperi, tra i quali spiccano l’eliminazione dell’Invalsi, l’assunzione di collaboratori scolastici per fronteggiare il fabbisogno degli istituti, l’immissione in ruolo per chi supera i 36 mesi di servizio e l’integrazione degli alunni stranieri nelle classi. Particolarmente sensibile a quest’ultimo tema, infatti, la mobilitazione è proseguita sabato 1 dicembre con l’iniziativa cittadina Sei una di noi. Sei uno di noi schierata contro il Decreto Sicurezza appena convertito in legge. Un universo all’apparenza distante dalle originarie rivendicazioni degli scioperanti ma che, visto da vicino, mira innanzitutto alla riaffermazione della scuola quale baluardo di valori come il rispetto e il reciproco arricchimento tra le culture in un Paese ormai abbandonato alla deriva razzista. Il Coordinatore regionale della Rete degli Studenti Medi del Lazio, Andrea Russo, non si arrende, chiedendo «una società libera da ogni tipo di discriminazione e di razzismo» in cui la scuola sia «palestra di democrazia» e punto di partenza per una realtà migliore.
Eppure pare lo abbiano dimenticato tutti il ruolo primario dell’istruzione nel fondare un giusto futuro, in primis Marco Bussetti, ministro sconosciuto ai più in un governo che nella Legge di Bilancio avrebbe previsto tagli alla scuola per 100 milioni di euro. Le decurtazioni inciderebbero principalmente sull’Alternanza scuola-lavoro, attraverso una netta riduzione oraria non accompagnata, tuttavia, da una revisione incisiva del percorso formativo invocata a gran voce. Nata con l’intento di aprire ai giovani una prima finestra sul mondo del lavoro, ma bollata dagli studenti come mera occasione di sfruttamento; l’iniziativa si presenta, infatti, come tema caldo, ancora irrisolto, di ogni contestazione. I tagli previsti dalla Legge di Bilancio, inoltre, ostacolerebbero la piena attuazione del Piano Nazionale Scuola Digitale, misura introdotta dalla Buona Scuola per l’organizzazione dell’educazione nell’era digitale, limitandosi ad introdurre delle figure di supporto tecnico nelle istituzioni scolastiche.
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Un provvedimento di certo insufficiente dinanzi ad un ben più ampio progetto di innovazione in campo educativo. Infine, alcuna garanzia di assunzione viene elaborata per far fronte alla situazione degli insegnanti precari e soggetti a trasferimenti all’altro capo del Paese nonché all’adeguamento del personale ATA alle concrete esigenze delle scuole. Nessuna notizia incoraggiante, dunque, per le possibilità di rientro dei cosiddetti docenti esiliati né per migliaia di posti scoperti da collaboratore scolastico in tutta Italia.
Il confronto tra i delegati USB e i rappresentanti del MIUR, come riportato in una nota dello stesso sindacato, si è pertanto rivelato «deludente ed ha evidenziato una sostanziale continuità con i governi precedenti nel considerare la scuola pubblica statale un settore non prioritario in termini di investimenti pubblici». Il «governo del cambiamento» si inserisce, così, in una linea di continuità rispetto a decenni di tagli e precariato. La strada del vero cambiamento è ancora lunga.
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