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Dalla tecnologia 3D un aiuto per “salvare” i patrimoni dell’umanità a rischio

Come si possono salvare i reperti archeologici che stiamo perdendo? La stampa 3D può essere la risposta.

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«Il modo più efficace di distruggere le persone è negare e cancellare la stessa comprensione della loro storia», diceva George Orwell. Molto probabilmente è con questo preciso intento che i miliziani del cosiddetto Stato Islamico si impegnano a distruggere i monumenti delle città di cui prendono possesso, meraviglie di antiche civiltà che sopravvivevano da migliaia di anni. Da quasi un anno (per quel che possiamo sapere) siamo costretti ad apprendere le notizie della perdita di importanti reperti archeologici, spesso accompagnati da atti di violenza inaudita contro le persone, come la decapitazione dell’archeologo Khaled al-Asaad.

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Dell’operazione che l’UNESCO ha definito “pulizia culturale” sono vittime tutte le manifestazioni di civiltà pre-islamiche, di religioni diverse dall’islamismo e di “eresie” quali la confessione sciita; per citare soltanto qualche nome, la cinta muraria dell’antichissima città assira di Ninive, le opere esposte al museo archeologico di Mosul (alcune delle quali, fortunatamente, erano solo copie in gesso), le città assire di Nimrud e Hatra e, proprio in questi giorni, la siriana Palmira. Sarebbe scorretto classificare come “furia distruttrice” questi atti che, lungi dall’essere casuali, hanno delle motivazioni molto forti, da quella ideologico-culturale a quella meramente economica.

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Distruzione niniveNonostante le perdite dovute alle distruzioni siano irreparabili, molti hanno deciso di non rimanere impotenti a guardare. E, se ricostruire monumenti antichi di 3.000 anni identici a quelli che non ci sono più sarebbe impossibile – oltre che, forse, ingiusto – si può almeno conservare nel modo più preciso possibile la memoria di come erano fatti. Qui interviene la tecnologia: grazie ai droni, alle fotocamere stereoscopiche, alle stampanti 3D sarà possibile un giorno ricostruire i modelli dei monumenti e metterli a disposizione degli studiosi. A questo scopo sono nati diversi progetti, finanziati in parte dall’UNESCO, che sfruttano le moderne risorse per garantire una sopravvivenza almeno virtuale ai siti archeologici in pericolo.

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Il Project Mosul è nato lo scorso marzo, dopo la distruzione di alcuni reperti del museo archeologico di Mosul. L’idea è nata da due membri del ITN-DCH (acronimo di Initial Training Network for Digital Cultural Heritage), Chance Coughenour e Matthew Vincent, che hanno pensato di utilizzare la fotogrammetria per ricreare delle immagini tridimensionali per il pubblico. La fotogrammetria è una tecnica, utilizzata soprattutto in architettura, che consente di rilevare la forma, le dimensioni e la posizione di un oggetto attraverso la comparazione di due fotografie. Si tratta, in pratica, di simulare l’operazione che l’occhio umano compie spontaneamente: attraverso una coppia di fotografie scattate ad una distanza comparabile a quella intrapupillare (6,35 cm) oppure una macchina fotografica stereoscopica dotata di due obiettivi distanziati, è poi possibile con un software trasformare le immagini bidimensionali in un modello 3D.

reperti archeologiciEcco allora che il Project Mosul si avvale della collaborazione di persone che, volontariamente e in modo gratuito, mettono a disposizione i loro vecchi scatti, in modo che da questi si possano ricavare le immagini tridimensionali; le fotografie possono essere caricate autonomamente sulla pagina ufficiale del progetto. Al momento nella sezione 3D Gallery sono disponibili ben ventiquattro modelli tridimensionali di diversi monumenti e manufatti: uno dei più riusciti, tanto da avere un posto d’onore nella Home Page, è la ricostruzione del celebre leone di Mosul. I curatori del progetto si dicono consapevoli del fatto che queste ricostruzioni virtuali non hanno la precisione di quelle fatte con tecnologie più appropriate, come i laser scanner, e che non offrono un grande aiuto ai fini di uno studio approfondito. L’obiettivo è comunque, come ha affermato Matthew Vincent, «ricreare l’esperienza di trovarsi nel museo, nel cyberspazio», un’esperienza a cui tutti gli interessanti potranno accedere liberamente. In futuro, inoltre, la speranza è di poter realizzare dei modelli concreti grazie alle stampanti 3D che possano essere utilizzabili anche dagli studiosi.

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reperti archeologiciUn progetto simile è quello partito da poche settimane e promosso dagli archeologi delle università di Oxford e Harvard, in collaborazione con l’UNESCO e la NYU: il Million Image Database Project. Si tratta di distribuire entro la fine del 2015 cinquemila fotocamere 3D – le macchine fotografiche stereoscopiche di cui si è parlato sopra – nelle zone di guerra, in particolare Iraq e Siria, ma anche in futuro in Libano, Yemen, Afghanistan. Gli apparecchi avranno un costo molto ridotto (circa 27 $), saranno robusti e semplici da utilizzare e verranno distribuiti a chi lavora a stretto contatto con i reperti archeologici a rischio, come curatori dei musei, insegnanti, volontari e archeologi stessi. Anche qui, l’obiettivo è creare un grande database che arrivi a contare un milione di immagini entro la fine del 2016; tale archivio sarà poi messo a disposizione di tutti, in particolare degli studiosi che potranno ricostruire i reperti con la tecnologia della stampa 3D. Ma, cosa più interessante, ogni fotografia verrà registrata nel database con la data, l’ora e la posizione in cui è stata scattata, grazie al GPS contenuto nelle fotocamere: questo farà in modo che, se ad esempio viene rilevata la presenza di un oggetto presso un sito archeologico nel 2015, esso verrà segnalato come trafugato e non potrà più essere venduto. Un grande aiuto per contrastare il mercato nero di reperti archeologici, che prolifera anche grazie all’impossibilità di stabilire quando e in che modo un oggetto è giunto nel mondo occidentale.

I recenti avvenimenti hanno impresso una forte accelerazione allo sviluppo di questi progetti, ma in realtà il lavoro di mappatura digitale di siti e reperti archeologici è in cantiere da anni. I miliziani dell’Isis non sono certo i primi a privare il mondo dei resti delle antiche civilità: basti pensare a quando nel 2012 le forze jihadiste guidate da Ansar Dine distrussero i monumenti dell’antica Timbuktu, a nord del Mali; ma anche le forze della natura (terremoti, eruzioni vulcaniche), non meno disastrose, minacciano i patrimoni dell’umanità. La tecnologia può aiutare, quando non a fermare il tempo o la stupidità umana, almeno a conservare la memoria.

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Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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