26 maggio 1940. La seconda guerra mondiale è appena iniziata, e circa 400.000 soldati tra inglesi, francesi e belga sono affollati sotto scacco tedesco sulla spiaggia di Dunkerque, a nord della Francia, proprio di fronte al Canale della Manica.
Sono diversi i modi in cui si può parlare di questa pagina di storia. Se la chiamiamo “Operazione Dynamo”, parliamo di un fallimento militare colossale delle truppe degli alleati, e della più grande vittoria tedesca in una battaglia di annichilamento. Se invece la intitoliamo “Miracolo di Dunkirk”, o menzioniamo il “Dunkirk spirit”, ci riferiamo alla vittoria dello spirito di solidarietà britannico, che di fronte al disastro militare vede partire una flotta di 850 piccole imbarcazioni civili che contribuiscono a salvare più di 338.000 soldati inglesi e alleati.
È di questa vicenda che tratta il nuovo film diretto da Christopher Nolan, Dunkirk, che uscirà nelle sale italiane il 31 agosto. Tra gli spettatori precoci, qualcuno ha additato all’immoralità del film, che sarebbe un’estetizzazione e quindi glorificazione della guerra. Altri lo hanno accusato di razzismo – o semplicemente rimproverato di non attenersi ai fatti – per la mancata rappresentazione di soldati di origine indiana e africana tra gli alleati. Se da un lato si possono condividere le critiche all’inaccuratezza, gli argomenti sulla glorificazione della guerra falliscono nell’interpretare lo spirito del film.
È vero, Dunkirk è un film estetico, visuale, sonoro. E guidato dall’azione, più che dal concetto. È scandito attraverso tre tempi (una settimana, un giorno, un’ora) e attraverso tre punti di vista (la terra, l’acqua, l’aria): in questa dimensione spazio-temporale le azioni si sovrappongono e si succedono in un vortice angoscioso. Non è un film riflessivo, non ci sono strati, non esistono rallentamenti che concedano di riflettere sulla natura del potere, sulla complessità della guerra, sul senso della violenza come può succedere nei Bastardi senza gloria di Tarantino, o La croce di Ferro di Peckinpah, o l’Infanzia di Ivan di Tarkovskij. Nolan getta lo spettatore in mezzo agli eventi e lo lascia ragionare quanto qualsiasi soldato coinvolto nell’azione. Cioè poco. Tra rumori assordanti, corpi umidi, distrutti e putrefatti, relitti affondati, lotte contro l’uomo e contro la natura. Navi affondano una dietro l’altra, persone si scalciano a vicenda in apnea annegando, e se non annegano devono nuotare per ritornare disperate al punto di partenza. Così si rammenta che decine, centinaia di Titanic sono dovuti avvenire perché un paese si potesse aggiudicare su un libro di storia la vittoria di una battaglia. Dunkirk, pur estetizzando la guerra, riesce a dipingerne la bruttezza.
Tanto si è travolti dagli eventi che ci si rende conto dopo, forse, che i nemici tedeschi non si sono nemmeno visti. Sono una macchina assassina sempre presente eppure aleatoria e invincibile. La scelta di mantenere il nemico così astratto consente però di gettare luce sulle costanti tensioni interne. Forza e debolezza, giusto e ingiusto, generosità e egoismo, sono un tutt’uno già solo tra gli uomini inglesi. Non c’è bisogno di mostrare il nemico per contrapporre il negativo al positivo. Non esiste gloria né soddisfazione. Non esistono buoni e cattivi. Esistono uomini miserabili, spaccati nelle loro contraddizioni interne.
Se anche non esiste gloria, però, esiste vittoria. Non vittoria sul nemico, ma vittoria della solidarietà. Dunkirk è una storia di salvataggi più che di perdite, che associa l’eroismo alla generosità e la vigliaccheria all’individualismo e al nazionalismo. E proprio per questo, in un mondo attraversato da spaccature e polarizzazioni, diventa un film necessario.
Silvia Lazzaris