David Hockney è uno degli artisti più influenti del secondo Novecento. Nato in Inghilterra ma profondamente legato agli Stati Uniti, trova nella California una seconda patria dove tra piscine scintillanti, cieli limpidi e modernismo architettonico realizza una serie di dipinti che nascondono una tensione costante, una sensazione di distanza e di silenzio.
Un’estate che non scalda
Nell’immaginario collettivo, l’estate è la stagione della libertà, della leggerezza, del contatto umano. Nei quadri di Hockney, invece, essa si trasforma in una stagione dove il tempo sembra fermarsi e lo spazio si dilata. C’è luce, ma non calore. C’è colore, ma non vita. Gli ambienti, spesso geometrici e silenziosi, trasmettono una calma che sfiora la malinconia.
Esempio perfetto è A Bigger Splash (1967), probabilmente la sua opera più nota, che rappresenta una piscina colta nell’istante in cui qualcuno si è appena tuffato. Il corpo è scomparso sotto l’acqua, resta solo lo spruzzo. Il gesto è presente, ma la figura è assente.

Un anno prima, nel 1966, Hockney dipinge Peter Getting Out of Nick’s Pool, un’opera intima e allo stesso tempo distante. Il corpo maschile è centrale, eppure non comunica e l’acqua separa. Anche in Sunbather (1966), l’idea di relax è smorzata da una composizione che annulla ogni spontaneità: la figura giace al sole, ma non sembra parte dell’ambiente.
Lo stesso vale per Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) realizzata nel 1972. Qui due persone condividono lo stesso spazio, ma non un legame. Uno nuota, l’altro osserva vestito, ma tra loro non c’è dialogo. Sono due mondi chiusi, paralleli, che non si toccano.
Così quella di David Hockney è una luce che più unire, isola. Tutto è visibile ma non è condiviso. Gli ambienti, spesso architettonicamente rigorosi, sono ordinati e silenziosi. Le figure, quando presenti, sono immobili, ritratte in atteggiamenti quotidiani che però non restituiscono alcuna intimità.

La solitudine, però, non è mai rappresentata come tragedia. È piuttosto una condizione esistenziale: una realtà sottile e persistente che abita i luoghi e le persone. L’estate, per Hockney, diventa così il mezzo ideale per esprimere questa condizione. Il vero paradosso non sta tanto nella stagione in sé, quanto nella distanza tra l’immagine che ne dà la cultura visiva contemporanea e la realtà.
I media, la pubblicità, i social ci raccontano l’estate come tempo di felicità, spensieratezza e connessione. Ma nei dipinti di Hockney e forse nell’esperienza più autentica di molti, essa si rivela come un tempo sospeso, abitato da silenzi e distanze.
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