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Evgenij Onegin: a Bologna l’antieroe contemporaneo di Ciajkovskij

5 minuti di lettura

Nella Russia ottocentesca già c’era l’Occidente contemporaneo. Una società intorpidita, una borghesia sfatta, languente. La dolce vita, irrefrenata, andava in scena nei salotti di una San Pietroburgo imbellettata d’ambiguità, ipocrisia. Oblomov è il russo ottocentesco come lo studente contemporaneo: nullafacente, nichilista, la stasi, direi proprio la svogliatezza, è per lui una condizione irrinunciabile, quasi un vortice di possessione. Come Oblomov è Evgenij Onegin, creatura di Puskin messa in musica da Ciajkovksij: Onegin nichilista, Onegin crudele, Onegin alla fine stravolto e sconfitto. La sua condotta lo ha distrutto, self-made e self-destroyed man. Onegin rifiuta Tatjana e si nega un riscatto possibile, per lui l’unico: lo speculare comportamento (anch’esso l’unico possibile) di Tatjana nei suoi confronti alla fine dell’opera è la condanna all’inferno, un altro Don Giovanni (diversissimo, anzi opposto a quello mozartiano) è spedito fra le tenebre dal Commendatore. Se Tatjana ha la forza della dignità, ad Onegin manca pure la coerenza. Ma Onegin non ha nulla, ventiseienne sciapido, cosciente del proprio fallimento, nemmeno può contare sull’amico Lensky, da lui stesso ucciso in duello. A noi fa tanto paura vedere il declino di Onegin perché l’europeo di oggi è della stessa sua pasta: disinvolto, brillante e vuoto. Milioni di individui la cui personalità è stata succhiata dalla vita in società, disabituati ad esercitare il pensiero volgendolo a speculazioni che non siano utilitaristiche. L’utile è assorto a categoria edificante della politica, della moralità, della famiglia, mentre io credo, con Nucio Ordine (ma prima di lui Aristotele) che sia da rivendicare “l’utilità dell’inutile”.

Di tutte le possibili letture del capolavoro di Ciajkovskij, in scena ora al Teatro Comunale di Bologna, Mariusz Trelinski ne ha scelta una molto bella formalmente, ma concettualmente ben poco pregnante o incisiva. Sempre presente in scena, “O” è il vecchio Evgenij, muto, partecipe degli avvenimenti. Una proiezione temporale come se ne vedono anche troppe nel teatro d’oggi, ché lo stratagemma del flashback è un passepartout ormai banale. Bravo comunque il mimo Emil Wesolowski, e stupende le luci di Felice Ross, che molto spesso da sole formavano la scenografia (questa realizzata da Boris Foltyn Kudlicka). Di felice impatto visivo anche i costumi, affidati a Joanna Klimas.

Alterni gli esisti musicali (in questo caso della recita del 2 aprile). Il direttore Aziz Shokhakimov, pur facendo emergere alcuni colori interessanti, non scavava a fondo nella partitura: esempio principe ne sia la famosa scena della lettera, dove l’ignorare un graduale, quasi impercettibile crescendo porta ad una esplosione in fortissimo non adeguatamente preparata. Peccati tutto sommato relativamente veniali, alla luce di una resa coloristica che come si è detto è stata buona. Eccellente il baritono Artur Rucinski, che ha sostituito l’indisposto Valeriu Caradja: il suo Onegin ha un timbro molto bello, morbido, unito ad una efficace resa espressiva del personaggio. Il legato del registro medio è poi gentilissimo, autenticamente baritonale. E non è cosa scontata. Soddisfacente anche la prova di Anna Kraynikova, Tatjana. La voce è giovane, ma l’emissione correttissima, sebbene provvista di un particolare vibrato, il cui fascino è soggettivo. Ritratto che emerge è quello di una Tatjana malinconica, altera nel momento del rifiuto,che però è intimamente sofferto. Alexei Tanovitski era il Principe Gremin: voce davvero interessante, viene a capo della sua splendida aria in maniera impeccabile, e in virtù del colore scurissimo conferisce un’aura quasi metafisica al canto assorto. Purtroppo il cast vedeva in Kachatur Badalyan un Lensky assai difettoso: il colore di per sé poco piacevole, la mancanza di squillo, andavano a inficiare una prova in cui l’emissione è stata spesso forzata, non permettendo di creare un personaggio vocalmente interessante. Anna Viktorova vestiva i panni di un’Olga dal volume risonante, e Thomas Morris era un singolare (ma problematico) Triquet. Completavano il cast Elena Traversi (Larina), Cristina Melis (Filipp’evna), Luca Gallo (Zareckij), Marco Argentina (Guillot) e Nicolò Ceriani (un capitano).

Al termine successo calorosissimo per tutti gli artisti, tributato da un teatro pieno. E’ sempre un piacere vedere trionfare opere bellissime, ma magari poco di richiamo presso il grande pubblico, come Evgenij Onegin.
Michele Donati

Redazione

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