Si è conclusa, con un atteso concerto di Fabio Luisi alla guida dell’Orchestra dell’Accademia della Scala, la rassegna Grandi Interpreti del Bologna Festival. Conclusione di livello degnissimo, a cominciare dal programma, che presentava titoli di notevole interesse, studiato apposta per esaltare le doti di concertatore del Maestro genovese. Ad aprire la serata è stato il celebre Idillio di Sigfrido, di Richard Wagner. Il brano, composto da Richard per la moglie Cosima verso la fine del 1870, non teme confronti con la migliore tradizione sinfonica, anche se non sono poche le volte in cui, soprattutto in passato, è risultato appesantito da un’eccessiva velocità, che ha impedito il completo dispiegamento della partitura.
La lettura di Fabio Luisi, esperto wagneriano, è invece correttissima, e oltre alla correttezza offre una tavolozza di colori completa, che il Maestro indirizza verso un cromatismo scuro, dove i fiati sembrano un po’ soffocati e difficilmente si abbandonano all’espansione melodica: un’Idillio ottimo, dove non si è però sentita quella tensione elettrica e sacrale che percorre sempre la spina dorsale delle composizioni wagneriane, prediligendo una contemplazione più meditabonda e autunnale, in tono con il clima piovoso di domenica. Il difetto di tensione si fa sentire maggiormente per quanto riguarda l’esecuzione del poema sinfonico Don Juan di Richard Strauss, tratto dal testo di Nikolaus Lenau.
Questo capolavoro del giovane Strauss è un’opera agitata e demoniaca, fatta di vibrazioni peccaminose, irrazionale eppure calcolatissima nell contrappunto meticoloso: Luisi è un grande direttore, ma il suo Don Juan è un po’ troppo posato e troppo poco dionisiaco. Il colpo da fuoriclasse Luisi lo tiene per il brano conclusivo, e pezzo forte del programma: la celeberrima Symphonie Fantastique di Hector Berlioz, capolavoro a programma visionario e frenetico. La Fantastique mi è sempre sembrata un incubo dai colori funebri, ma Fabio Luisi, pur non offrendo certo un’esecuzione che possa pareggiare quella sublime di Abbado, o quella di Bernstein, ha fatto scaturire dalla sua bacchetta un suono secco e violento, ineluttabile nella freddezza immobile degli ottoni, tragico nelle convulsioni degli archi, con i contrabbassi a vomitare note gravi e i violoncelli a lamentarsi poeticamente nello sfacelo. Impressionante la tensione del crescendo dei timpani, e impressionante il quarto movimento, la drogata marcia al supplizio, così come l’infernale quinto movimento. Al termine successo incandescente per Fabio Luisi e per i giovani orchestrali dell’Accademia della Scala, tutti ottimi.
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Michele Donati
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