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Foresta Rossa – Una domenica pomeriggio in Triennale

8 minuti di lettura
Finita la partitella di street basket in Sempione decido di passare in Triennale (di Milano) a vedere l’ultima mostra di Velasco Vitali: Foresta Rossa – 416 città fantasma nel mondo. Amo le mostre che costano poco (L’intero viene 4 euro, ridotto studenti 3) e rallegrato da ciò mi ritrovo a salire le scale di corsa. Le due sale, contenenti 30 tele e un centinaio tra disegni e schizzi, si trovano in fondo ad un corridoio bianco in una posizione che mi sento di definire marginale ma la cosa non mi dispiace affatto. Anzi, sono piacevolmente colpito da una sensazione di intimità che le pareti candide emanano.
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All’entrata le imprescindibili presentazioni dei curatori: Luca Molinari e Francesco Clerici (a destra nella foto) che è anche l’assistente dell’artista (a sinistra). I soggetti delle opere esposte, se qualcuno se lo stesse chiedendo, sono quelle città, villaggi o semplicemente case sparse per il mondo che per un motivo o per l’altro l’uomo ha abbandonato. La mostra racconta quindi di rovine e solitudine ma anche di natura e pace: l’avversativa in questo caso ha soltanto valore estetico e congiunzionale dato che, come sottolinea giustamente Clerici, Velasco non vuole porre un giudizio morale nei confronti dell’uomo, come invece ha inteso Molinari che paragona le città deserte a delle moderne Babele; al contrario sembra che l’artista voglia far nascere una suggestione all’interno del visitatore fatta di quelle immagini e di quei ricordi da sempre sepolti nella mente. Si intuisce che l’emotivita causata dalle opere è metastorica ma privata totalmente di un monito monumentale; difatti il fine, riprendendo le parole di Clerici, non è quello di una ricerca scientifica o storiografica ne tanto meno archeologica.
La verità nelle storie di questi micro-mondi, raccontate sui pannelli che accompagnano i disegni, è secondaria, quasi superflua. Con ciò non intendo dire che non ci sia dietro un lavoro di ricerca, ma che, più che raccontare La Storia, è come se l’artista preferisca raccontare le storie e, osservando gli schizzi e gli acquarelli esposti nella prima sala, ho la sensazione che questa distinzione si coniughi perfettamente con il suo modo di disegnare. Da Testori in poi i critici che hanno recensito Velasco hanno sempre sottolineato come all’origine della sua formazione artistica ci fosse (ci sia) una forte e fondamentale base da disegnatore che sempre ha condizionato la sua pittura, ma quello che mi colpisce nei suoi lavori più che la linea, certo abilissima, è il senso fotografico. È un qualcosa che va oltre all’ispirazione influenzata dalle foto dei numerosi luoghi che ha poi dipinto supponendo che non ne abbia visitato alcuno o per lo meno la maggior parte: è l’abilità di incorniciare gli spazi attraverso la prospettiva e l’equilibrio delle masse. E se la fotografia è per eccellenza il documento classico delLa Storia moderna, applicata al disegno e alla pittura crea una verità sfuocata che sposta l’attenzione verso una vivida pace contemplativa derivata da un raccontare spontaneo di una natura che colonizza l’artificiale.
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Entrando nella seconda sala rimango a bocca aperta. Forse perché sono le 18 e fuori c’è il sole non più alto dall’orizzonte. La stanza infatti è un grande parallelepipedo di un bianco quasi accecante acceso dalla luce che entra di traverso dal soffitto a scaglioni. Nel centro una trentina di sedie di legno anch’esse dipinte di bianco offrono riposo ai visitatori e sulle pareti le grandi tele brune senza cornici, punzonate agli scheletri in legno, ricordano vagamente degli arazzi. Mi siedo e mi riposo. L’ambiente chiaro e semplice non crea per nulla quel fastidioso distacco tipico degli ambienti asettici e lungi dall’esserlo riesce a trasmettere la giusta dose di genuinità. Una vecchietta tira fuori dalla borsa una lente di ingrandimento per poter leggere il titolo di uno dei trenta dipinti esposti. Un bambino cammina con le mani sugli occhi ostentando la delicatezza delle sue pupille infastidite dalla troppa luce, la sorellina lo segue a ruota, anche lei mani al viso, spiando fra le dita per poter imitare i gesti dell’altro con un ritardo di pochi secondi. La pace dei luoghi dipinti si riversa nella stanza. Un quadro in particolare mi colpisce profondamente: Ross Island (sopra). Rappresenta le radici di un grosso albero che nasconde una casetta con due finestrelle. Quest’opera è lo spunto che mi fa riflettere su un’altra grande capacità di Velasco: comunicare su più livelli di comprensione. Forse è solo una mia sensazione ma a differenza di molta arte contemporanea che punta a stupire vivendo di espedienti che molto spesso risultano però esclusivi di un pubblico troppo borghese o intellettuale, l’arte di Velasco è globale e raggiunge  tutti (escludendo i prezzi delle tele, chiaramente).
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 La semplicità nel dipingere che si intuisce anche dall’ortogonalità delle spatolate dei colori ad olio o dalle linee semplici che racchiudono i profili delle forme, si mescola con una commistione di tecniche che donano tridimensionalità alla tela rendendola viva. In questo verso paradigmatico è Grand Bassam (sopra, è la copertina del catalogo Skira) la cui unica orma umana lasciata è il “basket” che esce dal quadro sorretto da un palo o forse da un tronco di una palma come quelle che riempono lo sfondo.
Tuttavia, mentre l’assenza di cornice è una fuoriuscita voluta, giustificata e non forzata dagli schemi dell’arte, l’evasione dalla classicità rettangolare del quadro forse per il tipo di pittura di Velasco può sembrare un minimo artificiosa ma nulla toglie alla potenza comunicativa del suo lavoro. Velasco propone quindi una mostra tecnica. Quasi perfetta. Forte della sua abilità nel dipingere tele di grandi dimensioni. Esco appagato e sereno. Foresta Rossa rimane un viaggio di idee e visioni slegate dalla realtà che metaforizzano con notevole incisività l’antitesi tra uomo e natura nella complementarità ossimorica del titolo stesso.
(per saperne di più sul titolo o sulla mostra andatela a visitare. è aperta fino al 6 settembre) 

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 Daniele T. Colombo

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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