Difficilmente può risultare comprensibile la realtà socio-culturale dell’Occidente se si prescinde dalle influenze esercitate su di esso dalla religione cristiana, in quanto apparato teoretico prima ancora che come veicolo di una certa quantità di potere.
L’insufficienza ontologica del mondo
Affermando che «il Creato è stato condannato a non aver senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato» (Rm 5, 12), Paolo di Tarso indica al pensiero una via che lo conduce lungo il sentiero che, inesorabilmente, ha la sua condizione di possibilità nell’insufficienza ontologica del mondo, il quale risulta sempre incapace di giustificare la portata denotativa dell’esser-ci umano. Come a sottolineare l’incapacità, per l’uomo, di trovarsi riflesso nell’intimo della sua natura più profonda, da un universo silente che negasse a se stesso tutto ciò che è esule da una sterile ipseità, una misera identità con sé.
Ciò fa sì che, in Paolo di Tarso, la dimensione creata debba trovarsi imprigionata lungo un’infinita serie che replica l’essere fino a privarlo della sua realtà meramente teoretica (la quale presupporrebbe una certa autonomia della materia, cosa che Paolo nega decisamente) perché attraverso la teoresi più pura, l’aprirsi più ingenuo, si dischiuda il nucleo di una ragione che si faccia oggetto della propria speculazione, in quanto ente anch’essa ed ente finito.
I lògoi
A questo punto, nella ragione non si trova più la facoltà del vero e del falso come primo tratto distintivo, perché in essa albergano infiniti lògoi, resi possibili però dal Lògos che si è mostrato pienamente tale incarnandosi (facendosi materia). La questione teoretica, riscontrare la finitezza d’ogni cosa, coincide perciò dall’inizio con la questione etica della condanna a tale limitatezza, che implica sempre l’insensatezza ontologica perché nel divario che separa A e B nella loro diversità, nel loro non-essere-ciò-che-è-l’altro, vi è la ragione dell’impossibilità di un significato perfetto che, andando oltre il velo d’apparente contraddizione, un velo che condanna al nulla l’ente, possa significarlo nella misura più perfetta.
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Nichilismo
Tuttavia, secondo Paolo di Tarso, il tentativo teosofico di riporre nel Dio incarnato la garanzia dell’ente, imprime alla storia dell’Occidente un movimento che lo porterà necessariamente a far maturare quel nichilismo latente in un nichilismo patente e pronto all’autonomia teoretica. È ciò che accade nel secolo XX, quando diviene impossibile non constatare che
«la resurrezione dei corpi è un dono, grazia di Dio, si ha fede nel risorgere, ma è questa stessa fede a dire che il dono sarebbe potuto non esserci. Come tali considerati per se stessi, tutte le cose e i pensieri e gli affetti e i desideri sono nulla. L’avvento della “morte di Dio” è il trionfo della morte come annientamento. Dio era il luogo dove l’uomo poteva ancora sentirsi eterno e felice. Ora si viene a sapere che quel Luogo non c’è mai stato e che l’uomo è solo in mezzo al nulla».
(E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, p. 53)
Nella prospettiva di una teoresi cristiana, figlia di quell’ellenizzazione che la pose in dialogo con i padri della disputa ontologica, Platone, Aristotele e il loro procedimento iuxta rationem, risulta meglio comprensibile il trait d’union che conduce dalla (necessariamente-) scandalosa morte di Cristo, all’affermazione che l’ente si dischiuda nella sua nullità. Da omnia facta sunt (tutte le cose sono) a omnia sunt nihil (tutte le cose sono nulla), ma non un nulla che si riduca
«[…]all’annullare e al negare”, bensì un nulla “che nientifica, e nientificare non è un accidente pur che sia, ma, in quanto respinge rimandando all’essente che scompare, rivela questo essente, nella sua piena e fino allora nascosta straneità, come l’assolutamente altro[…]» .
(M. Heidegger, Was ist metaphisik, trad. it. A.Carlini, La Nuova Italia, Firenze 1971, p. 22)
Articolo di Francesco Diego Putarani
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