L’età in cui viviamo ci permette di avere al nostro servizio le tecnologie più avanzate in molti campi. Non è da meno la fotografia, a cui più persone si possono avvicinare grazie al digitale, alle fotocamere sempre più performanti, agli obiettivi e alle ottiche più luminose. Se poi parliamo di fotografia naturalistica abbiamo altri strumenti più innovativi per scattare immagini da ogni tipo di visuale, come i droni, il cui utilizzo è sempre molto controverso, o come le beetlecam, delle vere e proprie auto telecomandate in miniatura, anche a 4 ruote motrici, su cui vengono installate le fotocamere. Un modo originale per immortalare, in foto e video, animali selvatici nel loro habitat, a distanza ravvicinata e con inquadrature mozzafiato. Se la posizione del fotografo in questi casi è più che sicura, non lo si può dire altrettanto per l’attrezzatura fotografica, visti, ad esempio, i vari incidenti tra droni e rapaci, o le reazioni dei re della savana di fronte alla beetlecam del fotografo Will Burrard-Lucas.
Questa la tecnologia di cui disponiamo oggi, eppure la fotografia è nata due secoli fa. Quali erano, quindi, le attrezzature dei primi fotografi naturalistici?
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A questa domanda possono rispondere il libro In the Heart of the Dark Night e la mostra omonima, visitabile al Museo della Caccia e della Natura di Parigi fino al 14 febbraio 2016, dedicati a George Shiras, uno dei pionieri di questo genere fotografico.
Nato nel 1859 in Pennsylvania, George Shiras fu avvocato e politico americano, eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. La prima grande passione, condivisa da giovane col padre e il nonno, fu la caccia ma divenne poi un convinto ambientalista, dedicandosi alla fotografia degli animali e, in quanto membro del congresso, sostenne la creazione e l’estensione di vari parchi nazionali ed aree protette. A lui è stata attribuita la scoperta, nello Yellowstone National Park, di una sottospecie di alce, che in suo onore è stata chiamata Alces alces shirasi.
La fama di Shiras è legata a doppio filo alla rivista National Geographic – organo di informazione della National Geographic Society istituita nel 1888 per promuovere la cultura geografica – che pubblicò, nel luglio 1906, la bellezza di 74 sue immagini, proponendo una sorta di monografia con un unico e lungo articolo: Hunting Wild Game With Flashlight and Camera, che diverrà un vero e proprio libro soltanto nel 1935.
La prerogativa di Shiras era proprio quella di fotografare gli animali selvatici di notte, usando per primo i flash e le rudimentali fototrappole di sua invenzione.
L’esperienza di cacciatore gli permise di conoscere e affinare una tecnica imparata dalla tribù degli Ojibwa, nativi americani originari dell’area dell’odierno Michigan e delle coste del Lago Superiore: il jacklighting. Il metodo di caccia indiano consisteva nell’accendere un fuoco in una padella, collocata su una canoa. Il bagliore consentiva di attirare l’attenzione dell’animale che si fermava attratto dal fuoco, permettendo al cacciatore, posizionato nell’ombra sulla parte opposta dell’imbarcazione, di sparargli.
La tecnica applicata alla fotografia vedeva l’uso di una lampada al kerosene in sostituzione del fuoco.
Per le fototrappole – flashlight trapping – Shiras aveva ideato un sistema di corde molto complesso, collegate al flash e all’otturatore della macchina fotografica. Richiamato da un’esca, l’animale si avvicinava e, toccando quelle corde, faceva scattare la trappola.
Il flash, che rappresentava un’autentica novità per l’epoca, consisteva nell’accensione e nell’esplosione di polvere di magnesio che produceva una luce talmente intensa da provocare una cecità temporanea sia per la fauna selvatica sia per il fotografo.
Le immagini di Shiras servirono a documentare un mondo selvaggio da salvaguardare, la bellezza di una natura sconosciuta perché “invisibile” fino ad allora, contribuendo a creare una coscienza ambientalista e conservazionista di importanza storica e gettando le basi per la nascita della fotografia naturalistica.
Il volume In the Heart of the Dark Night è edito da Sonia Voss che ha curato anche la mostra in corso a Parigi. Le fotografie pubblicate rappresentano una selezione delle 2.400 negative su lastra originali, alcune risalenti al 1897, che Shiras, nel 1928, donò alla National Geographic Society, la quale ha provveduto alla loro scansione.
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