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Giovani e cultura umanista: è davvero un binomio impossibile? Dialogo con Marco Lodoli

21 minuti di lettura

Tempo fa, durante un corso di linguistica italiana in Università, il professore ci lanciò una provocazione che non mi lasciò indifferente.  Fu un articolo di Marco Lodoli a suscitare in me una reazione.  Ne riporto alcuni stralci, e a seguito una mia risposta.

Addio cultura umanista, Per i ragazzi non ha senso

«”Noi insegnanti parliamo di autori e temi che ai giovani sembrano polverosi e malinconici”. La fine dell’Umanesimo, quell’altrove culturale dove vivono gli studenti

“Io non esisto più, sono diventata invisibile”, mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria, e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento”. Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? […] Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.[…]

Anche Huckleberry Finn rifiuta la storia di Mosè e della manna nel deserto quando scopre che Mosè è morto da secoli, della gente morta un ragazzo non sa che farsene, dice Huck e forse ha ragione. Ma per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno  –  e più indietro non vado  –  il passato non era un tempo che svaniva insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell’immaginazione e nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d’acciaio o una ghirlanda di fiori univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell’incomprensibilità.

[…]Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L’arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. […]Questa è la stagione del desiderio, dell’onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato.[…] ma i ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più.

Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza
nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei. »

A seguito riporto la mia risposta:

Ha poco da lamentarsi, la professoressa. E poco ha da dire, e dice, Marco Lodoli, il quale non molto ha capito riguardo alle cause delle problematiche odierne inerenti alla cultura umanista.

Il problema di fondo non è la cultura umanista. È la modalità con cui essa viene trasmessa, modalità che si evolve in concomitanza con l’evoluzione del mondo in cui viviamo. Perché la cultura umanista è sempre lì, viva, ed è fatta di cuore, e il cuore umano non cambia. Perchè il cuore di Leopardi è lo stesso cuore dello studente svogliato che detesta l’italiano, e il cuore di Dostoevskij è lo stesso di quello della professoressa con gli occhi umidi che non capisce il mondo in cui vive, e quello di Proust è lo stesso del critico letterario che sterilizza la bellezza. Croce dice che “l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”, è un carattere ontologicamente presente nella nostra natura. Allora sta a noi ridestarlo, riaccendere quella fiamma per accorgersi che la bellezza esiste, ed è millenaria, e accompagna nei secoli la storia dell’uomo, e il suo cuore è il tramite  attraverso cui essa si manifesta. Implodere ,svegliarsi dal sonno, perché il viaggio è ritornare su passi di altri in altre vite, rievocare, veder riemergere fantasmi, e mettersi in cammino, perché è della meraviglia che deriva la vita dell’arte, della letteratura, della filosofia e della storia. Ed è proprio qui che il docente ha la responsabilità più gravosa. Che cosa lo muove? Qual è il suo obiettivo? Desidera che il suo studente conosca a memoria la data di nascita di Pirandello e le sue opere come da programma ministeriale? Che continui ad asciugarsi gli occhi. Il vero compito dell’insegnante, oggi, è quello di riesumare il sentimento del tempo. Sì, proprio quello che da Seneca e da Orazio ha mosso lo spirito di Proust e di Ungaretti. Proprio quello che rende coscienti di essere un sasso trascinato da un fiume. Qui sta il vuoto. Tanto più in una società come questa, la società del tutto e subito, del presente(come dice Lodoli) che divora se stesso. In realtà non divora niente. Il presente per essere tale è  passato che lo forma, che lo definisce, lo rende portatore di una coscienza. Questo non è presente, è trascinamento morto di un’esistenza, un sonno perpetuo, un tossire in mezzo ad una nube di fumo. Allora qui serve l’energia che Lodoli dice non trovarsi più nei cataloghi e nei musei. Venticello leggero. Perchè quell’energia è nella poesia, è nell’affresco,  è nel sonetto, è nella scultura come è nel ragionamento esistenziale della filosofia. È coscienza di vita, è la passione che anima i membri della razza umana.” Che il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso” scriveva Whitman, nella consapevolezza della vacuità del presente ma della inesorabile continuità della bellezza che attraversa il cuore dell’uomo. In questo senso è riscontrabile una cognizione che va oltre i confini spazio-temporali, prova inoppugnabile di una coscienza che percorre l’animo umano. Nel Quattrocento, Cinquecento, Seicento, l’Italia è divisa, e viceversa la pittura italiana è singolarmente unita; è come se, per quanto in luoghi diversi, si usasse lo stesso linguaggio, lo stesso sistema di rappresentazione. Esiste quindi un’unità dell’Italia prima che l’Italia sia unita, ed è unità linguistica, letteraria e pittorica, già prima del Quattrocento. Al di là della circoscrizione fisica è eloquente come il mondo umanistico sia contemporaneo in ogni epoca e che addirittura anteceda avvenimenti futuri. Seppur nelle individualità di ognuno e nelle differenze di espressioni, la causa prima rimane la stessa: lo stupore davanti ad un paesaggio, l’amore, la nostalgia di tempi perduti. In questa prospettiva risulta ridicolo anche il trattamento che viene rivolto nei confronti della cultura umanistica da parte delle istituzioni. Come può un’entità fisica e materiale mortificare l’essenza della vita umana, un’energia trascendente? La mortificazione delle nozioni con nessun’altra finalità che non siano loro stesse, come reminiscenze di un’epoca perduta che l’accumulo delle quali trasforma in un pezzo di carta. Mi spiego meglio. Ritengo che lo studio della letteratura, della storia dell’arte e della storia in un liceo siano indispensabili per comprendere la civiltà in cui viviamo, anche per chi non vede in tali materie un proseguimento e un orizzonte di vita volto al proprio sostentamento. Ma è mai possibile comprendere un autore memorizzando qualche nozione e qualche rinomata visione di qualche beneamato critico in un paio di settimane per poi passare (per ordine del ministero, si intenda) all’autore successivo, sforzandosi di ricordare il maggior numero di cose possibili per prendere un bel voto? Si provi a chiedere, tre o quattro mesi dopo la maturità, a un qualunque ex-studente che non abbia scelto una materia umanistica all’università, che cosa ama e che cosa odia del primo romanzo del novecento. Risponderà “nulla”, perché poco o niente ricorda, a meno che non possieda una buonissima memoria, di ciò che ha registrato nella mente poco tempo prima. E anche se qualcosa si ricordasse, ciò non basterebbe per formulare un giudizio interiore su ciò che ha studiato. Non solo per le modalità di studio sopra elencate, ma perché oramai si legge poco o nulla. Nulla è più indispensabile per capire un testo o un romanzo di leggere. Sembra una frase così scontata. Eppure è così, fumose teorie e qualche testo sparso qua e là, qualche stralcio che pretende di chiarire la visione di un autore. Ma è impossibile! È impossibile! Come capire un testo senza confrontarlo con la propria vita? Come capire gli intimi intenti dell’autore senza capire da che punto parte, da cosa è influenzato, da cosa è animato? A tale proposito, accorre in mio aiuto Italo Calvino, il quale nel suo libro “Perché leggere i classici” spiega in maniera quanto mai esaustiva proprio tale concetto: “La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all’immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.” Questo porta la mia riflessione verso un punto interessante espresso da Lodoli. “Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori”. Questa affermazione è tanto bella quanto autolesionistica. Perché questo, assieme alla ricerca della verità, è presumibilmente l’atteggiamento da assumere davanti alla lettura. Ma perché Lodoli può provarlo mentre è precluso ai giovani d’oggi? Perché la società del consumismo, del tutto subito, ecc ecc? Certamente, ma sarà appunto indispensabile ridestare questo desiderio o è diventata impresa troppo ardua da essere compiuta? L’impresa è sì ardua, ma va compiuta. Ecco perché mi trovo in totale disaccordo con l’ultima parte del discorso di Lodoli. Perché se i ragazzi leggono altri libri, se i ragazzi ascoltano altra musica, è perché non sono stati educati ad apprezzare i veri modelli ma solo obbligati ad impararli passivamente, per non abbassare la media scolastica. E poi quali sarebbero questi “altri” se non pessime e squallide imitazioni delle vere espressioni della vita che hanno contraddistinto l’esistenza dell’uomo attraverso il pensiero, l’arte e la letteratura? Perché che cos’è la musica rap se non la trasposizione di un disagio in rime, stessa causa che muove Leopardi? E che cosa sono i libri di Moccia, se non squallidi racconti di amore molto più immensamente sublimati dalla bellezza della poesia da Catullo a Saffo? Così, mi è capitato al liceo di ritenere Dante una rottura e di amare con tutto me stesso la storia dell’arte, perché raccontata con passione e con continua ricerca della verità da un professore che mostrava chiaramente di vivere per quello. Ora, che ho imparato ad apprezzare e amare Dante, posso dire che il sistema educativo è il nodo più influente dell’educazione scolastica. Occorre contrapporre lo sterile studio nozionistico(non stiamo parlando di matematica, né tantomeno di chimica!) ad una effettiva ricerca della verità, e mettersi nella condizione di infante che scopre la vita, che vede in Dante un suo fratello maggiore e maestro, e si confronta con esso, e lo legge, e, cosa più importante, formula un giudizio proprio in base alla propria esperienza e in base al quale ricerca veramente ciò che è vero, e che lo aiuta a distinguerlo dal falso, e lo aiuta a dire: ”Ma questa interpretazione del pensiero pirandelliano di tal critico, è vera o è una boiata?” Ecco perché è inammissibile non leggere! Solo il linguaggio eterno delle nostra storia può inibire l’annichilimento dell’imitazione di modelli vagamente americani. Lo studio come continuo vivere il sentimento del tempo, che rende tutto contemporaneo, che impone la lettura dell’invasione di Hitler della Polonia con la stessa angoscia che provò chi sentì la notizia per la prima volta alla radio o che la lesse sul giornale. La storia dell’arte, di ogni arte, può anche essere smontata o ricostruita secondo l’ordine cronologico: ma questo non esclude di poter contemporaneamente sentire Montaigne e Montale, Manzoni e Petronio: la distanza del tempo non impedisce di sentirli vivi e contemporanei anche se lontanissimi. È difficile riuscire a sentire, a capire la storia dell’arte o la letteratura seguendo la cronologia: bisogna arrivarci per impulso, per stimolo, per desiderio. Finita, esaurita, muta. No. Essa grida, grida dai musei, grida dalle biblioteche, grida dalle chiese. E i nostri ragazzi vanno educati ad ascoltarla.

Francesco Costantini

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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