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Gli amori proibiti di “Pelléas e Mélisande” in scena all’Opéra de Lyon

Un incontro fatale tra Tristano e Isotta tra le sporche periferie degli anni Duemila

13 minuti di lettura

di Ilaria Moretti

Grazie a un libretto di Maurice Maeterlink accompagnato dalla melodia infinita di Claude Debussy, Christophe Honoré – cineasta con alle spalle più di una decina di film, due messe in scena teatrali e una già conclamata regia lirica (Il dialogo delle Carmelitane di Poulenc) – stupisce all’Opéra de Lyon con la sua personale lettura di Pelléas e Mélisande.

Lo spettacolo, in scena dall’8 al 22 giugno, è una rivisitazione dell’antico mito di Tristano e Isotta: Pelléas e Mélisande si amano disperatamente, ma il loro rapporto è ostacolato dal marito di quest’ultima, Golaud, fratellastro dello stesso Pelléas, uomo geloso e possessivo che non esiterà a uccidere pur di ristabilire un’ipotetica unità famigliare ormai inesorabilmente perduta.

Pelléas e Mélisandre amplesso

Scardinando gli archetipi dell’antico mito, Honoré azzarda una lettura introspettiva e allucinata dell’opera lirica andata in scena per la prima volta a Parigi nel 1902. Ispirandosi all’immaginario proposto in Lost Highway di David Lynch, con una strizzata d’occhio al Crash di David Cronenberg, il regista annulla la simbologia classica della foresta come luogo di perdizione e della grotta emblema della sessualità proibita tra Pelléas e Mélisande, inventando un ipotetico non-luogo dove si consumano amori e gelosie.

Il castello e la famosa torre dalla quale Mélisande farà calare i lunghi capelli per permettere a Pelléas di raggiungerla, non esistono più. Al loro posto troviamo scarti di una vecchia fabbrica in dismissione, capannoni abbandonati dai muri scrostati e vetrate da architettura industriale anni Duemila. C’è un muro alto e inspessito che è accostato a un robusto marciapiede: simboli entrambi della difficoltà a vedere, emblemi fisici del distacco tra l’immaginario e la realtà.

Il sipario si apre su un palcoscenico deserto. Al centro della scena si trova soltanto una vecchia Ford anni Settanta circondata dal buio. Golaud (Vincent Le Texier) è partito per un lungo viaggio e sulla strada del ritorno incontra Mélisande (Hélène Guilmette) perduta, secondo antica tradizione, nel bel mezzo di un’immensa foresta. Quest’ultima – luogo topico per eccellenza – è qui sostituita da un gioco di chiaro-scuri: le luci illuminano e incupiscono il palcoscenico attraversato da filmati che si collocano a metà strada tra i boschi dei Fratelli Grimm e i paesaggi da incubo di The Blair Witch Project.

Le immagini ipnotiche paiono riflettere lo sguardo di un uomo (o altra entità) che tenta di farsi strada a fatica, cercando una possibile via per incedere tra un groviglio di alberi, inquietante metafora di perdizione. Viene alla mente l’inizio di Strade perdute, dove la telecamera segue impazzita le tracce d’asfalto mangiate a tutta velocità da un’auto misteriosa. Mélisande è frastornata e infelice. Non sa come sia capitata lì, pare aver perduto la memoria o forse, semplicemente, la capacità di vedere. È reticente ma sceglie infine di fidarsi del misterioso uomo «dai capelli grigi» che la prende sotto la propria ala, non accettando di abbandonarla in un luogo pericoloso. L’auto si muove, illuminando per un attimo il teatro buio, accecando lo spettatore e permettendogli forse una prima epifania, obbligandolo a un risveglio delle coscienze.

pelleas-melisande scène 2

Le dinamiche sono semplici. Mélisande sposa in seconde nozze Golaud. Non lo ama, si sente smarrita. È un personaggio complesso e misterioso, che forse non ha chiare le proprie dinamiche, non si conosce e l’iniziale perdita rima con il suo stesso caos interiore, la stessa nebulosa che l’accompagna e che le impedisce di liberarsi, permettendole di riconoscersi. Honoré afferra con fare sapiente l’impalpabilità del personaggio, trasformandola in un’ineffabile femme fatale. Il soprano Guilmette ricorda più che mai la Patricia Arquette di Strade perdute con i suoi continui cambi d’abito, le parrucche chiare e scure, le unghie laccate di rosso e i vestiti da vamp: mezza prostituta, mezza diva del cinema. Le personalità di Mélisande sono molteplici, lei stessa pare modellarsi in funzione dei soggetti che incontra, mutando di continuo in relazione ai diversi personaggi. Ma quando incontra Pelléas (Bernard Richter) su cui pesa – nella coraggiosa interpretazione di Honoré – l’ombra di un’omosessualità latente attraversata dallo spettro dell’Aids, cede le sue armi, getta pizzi e parrucche e diviene una fragile cortigiana dai lunghi capelli bruni, a piedi scalzi, con il vestito strappato dalla foga di lunghe ore d’amore, consumate di nascosto.

Il regista non ha timore di calcare la mano, di riproporre all’infinito le dinamiche già presenti in un certo cinema americano anni Novanta. Gli stessi marchingegni scenografici – pesanti e rumorosi come le macchine folli proposte nel Crash di Cronenberg – paiono volutamente stridere con l’immagine epurata del palcoscenico, dove predominano le stilizzazioni, le allegorie, come nel caso del castello che diviene cortile di un penitenziario (o possibile casa di cura). La fontana, simbolo di vita e giovinezza, dove Mélisande getta volutamente l’anello regalatole da Golaud, manifestando così la sua scelta esistenziale e passionale, qui non esiste. Non c’è traccia d’acqua nella pièce di Honoré, solo fanghiglia e due sparute pozzanghere che illuminano la scena, divenendo emblematiche proprio per la loro estraneità rispetto ai luoghi topici segnati dalla pièce. La carnalità c’è e si tocca con mano. Gli attori-cantanti sono vestiti, ma si scorgono maliziosi triangoli di carne, le allusioni a una sessualità prepotente e impetuosa si percepiscono dalle tensioni delle gambe, dalle vicinanze sospette che mimano amplessi sui cofani delle automobili (la stessa che Lynch aveva affidato all’oscuro personaggio di Mr. Eddy, il boss di Strade perdute, e che qui è ripresa da Golaud, personaggio a lui ispirato) o ancora dalle mani sudate e dai «corpi ancora caldi» che scompaiono d’un tratto dietro alle imponenti vetrate.

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Yniold, il figlio di primo letto di Golaud, sarà testimone della vicenda. È l’unico personaggio portatore di una giovinezza priva di peccato, può dunque “vedere” realmente grazie a degli occhi capaci di penetrare la realtà, al di là delle maschere e delle sovrastrutture del mondo adulto. Nella versione di Honoré non c’è soltanto un bambino in scena, ma due, poi quattro, in un moltiplicarsi inarrestabile che cresce in maniera proporzionale alla fame (fisica e sessuale) che alimenta i due personaggi che danno il titolo alla vicenda. L’innocenza ferisce, perché seppur da un lato se ne percepisce la freschezza e forse l’ingenuità – il bambino non pare comprendere fino in fondo la relazione tra Pelléas e Mélisande, non sa leggere la loro vicinanza, né può misurare la temperatura dei loro abbracci – dall’altro, per Honoré, non c’è salvezza, nemmeno in lui. La solitudine del personaggio di Yniold diviene quindi soffocante, su di lui pesa già l’ombra di un’adolescenza ai margini, a giocare con fuoco e sigarette, ad abbassarsi il cappello sugli occhi, assumendo pose inconciliabili con la sua giovane età. La sua stessa fisicità, il suo atteggiamento, accompagnato all’idea registica di posizionarlo a terra a fianco del marciapiede o sui muretti a sbirciare la vita degli altri, è una critica forte, fondatissima, all’abbandono di certe gioventù nelle periferie delle grandi città. È qui che si consumano violenze pubbliche e private e i codici comportamentali più violenti sono il pane quotidiano di adolescenti allo sbando. Le armi e il sesso divengono compagni di giochi, solo che non si tratta di un film: le immagini passano, si è testimoni – a volte senza intenzionalità – di un mondo crudo e abietto. E allora se ne diviene complici involontari, ci si ciba di una quotidianità squallida e difficile trasformandosi in silenti emissari: accade in fretta, quasi come tappa obbligata della crescita.

Non stupisce dunque il dramma: un lieto fine non esiste. Golaud dà la morte al fratellastro, ma ferisce anche Mélisande, dalla quale non riuscirà mai a ottenere la verità circa l’impetuosità – la realtà – del suo amore per Pelléas. Nella versione di Honoré il personaggio femminile è sì ferito, ma non muore per mano del marito. È lei stessa che si trascina verso l’acqua – elemento fondatore e fondale, grande assente per tutta la durata dello spettacolo. La fontana miracolosa, elemento di vita e gaiezza, è qui una palude d’acqua stagnante che sorge in un anonimo panorama di periferia, tra i tralicci dell’alta tensione e molto fango, molto deserto. Mélisande, come una moderna Virginia Woolf, si carica le tasche di pietre e si avvia, dopo un ultimo straziante saluto alla figlia, al suo destino già segnato. È una Terra desolata, al pari dei panorami dipinti da Thomas S. Eliot nell’omonimo poema, quella che ci concede Honoré nel suo spettacolo. Nessun vincitore, l’essere umano trascina nella morte ogni peccato, ogni segreto, non v’è verità, né possibilità di redenzione: «qui non c’è acqua, ma soltanto roccia / roccia non acqua e la strada di sabbia […]  / colui che era vivo adesso è morto / noi che eravamo vivi stiamo morendo, adesso».

Photos: © Jean-Louis Fernandez

Immagine in copertina: https://www.opera-online.com/fr

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Redazione

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