Di mostri, broccati e tanuk
Negli ultimi anni in Italia i maestri della xilografia giapponese si sono ritagliati importanti spazi nelle esposizioni, a dimostrazione di quanto si sia ampliato l’interesse nei confronti della tradizione artistica del paese asiatico. Dopo Hiroshige e Hokusay con i loro samurai e le meravigliose cortigiane (che a onta della inquieta femminilità palesata, celavano soggetti maschili travestiti per l’interpretazione dei personaggi del teatro No) oppure le vedute del Sumidagawa (il fiume Sumida), di Kunisada Utagawa che anziano si fece monaco, è importante potersi soffermare sull’insolita e visionaria lettura del mondo e dell’umanità di un altro Utagawa, in questo caso Kuniyoshi, che monaco invece non divenne mai.
Le sue composizioni, intrise di ironia e improntate verso una pungente satira sociale, furono una voce, spesso contradditoria e critica nei confronti degli usi del suo tempo quando ai colti samurai, bushi e quindi aristocratici guerrieri, residenti a Edo ma provenienti dalla campagna, si contrapponevano i chōnin (la classe borghese), cioè gli edokko, i figli di Edo. Kunyoshi era un vero snob: spregiudicato, edonista, elegante fino all’affettazione; iki, parola intraducibile che ha valore estetico più che morale e indica quell’ideale di contiguità ai principi sublimati nell’appartenenza all’ambito degli edokko, senza rifiutare una discreta e controllata volgarità. Personalità istrionica e giovane irriverente ben presto, alla morte del maestro, ne acquisì l’eredità.
Il Realismo di Kuniyoshi
Cavalcando la moda illustrò libri, disegnò guerrieri, gatti e balene; soprattutto le sue impressionanti descrizioni di spettri, mostri e demoni rivoluzionarono il genere. «La ricerca di realismo […]» come ci fa notare Rossella Menegazzo, curatrice della mostra e dello straordinario catalogo edito da Skira, qualità fino ad allora assente nella pittura giapponese almeno fino «all’arrivo della visione scientifica occidentale, diventa nell’opera di Kuniyoshi uno dei capisaldi anche quando ci si trova di fronte a creature mostruose.»
Il tanuki
Il tanuki, figura mitica della favolistica e della religione Shintō, non è un banale cane, si arrampica sugli alberi e non abbaia, ma il simpatico nyctereutes procyonoides, ovvero il cane procione, diffuso in tutto il Giappone. Protagonista del folklore – ora crudele e sinistro, non mancano tanuki che si macchiano di efferati omicidi fino a divenire veicolo di cannibalismo – avrebbe la capacità di mutare la sua forma esteriore e di travestirsi, divenendo senza alcuna difficoltà monaco, albero, fanciulla e addirittura teiera.
Figura desunta dalla cultura cinese (e assimilabile in qualche modo allo spirito-volpe, o divinità del riso, Inari, anche lei tra i soggetti amati dall’artista), descritta, spesso con connotazione negativa, dapprima naturalisticamente, nel XVI e XVII secolo si scosta sempre più dalla sua forma originaria e, solo sul finire dell’epoca Edo e in concomitanza proprio con la nuova iconografia suggerita da Kuniyoshi, il tanuki inizia il suo ingentilimento. Non è più un pericoloso licantropo, ma un personaggio simpatico, buffo e, oggi, attrazione turistica.
Quale che sia l’esegesi moderna della figura – in tal senso è utile la visione del film anime, Heisei tanuki gassen Pompoko, distribuito in Italia con il titolo Pom Poko e diretto da Isao Takahata, appartenente allo studio Ghibli del più noto Mijazaki – ignorato o quasi, sino a quel momento, il nuovo ruolo di protagonista assunto dal tanuki è presumibilmente da imputare allo sforzo intrapreso dalle sette buddiste ortodosse nei confronti dello svilupparsi di nuove spiritualità meno formali. Le divinità, kami ma soprattutto gli yokai, figure fantastiche venerate e amate dalla popolazione, erano per così dire arruolate al fine di mantenere e acquisire nuovi fedeli.
I procioni antropomorfi dell’artista utilizzano le gigantesche kintanami – letteralmente palle d’oro – in maniera estremamente creativa. Ve ne sono che pescano, che fanno sollevamento pesi, che preparano il dashi, la tradizionale zuppa, i mochi, riso agglutinato, che le mutano addirittura in tovaglia per il desinare all’aria aperta in Tanuki no kitsune no asobi (Tanuki e volpi si intrattengono, 1842).[Fig.1]
Basta soffermarsi sulle tavole esposte in mostra per rendersene conto. Kuniyoshi s’appropria delle tradizionali Otsu-e (raffigurazioni di Otsu, una città lungo la Tokaido, via che connetteva Kyoto a Tokyo), per reinventare attraverso una esilarante parodia dei principali personaggi presenti in queste immagini popolari vendute ai pellegrini, un pantheon di uccelli, gatti, rane, vestiti come mercanti, samurai, gran dame e contadini.

L’impronta di Kuniyoshi nell’arte occidentale
Kuniyoshi s’interessò all’arte occidentale – possedeva una collezione di incisioni europee – e forse il suo trattamento della prospettiva, il modo in cui poneva luci e ombre, in cui ritraeva nuvole e cieli, ci permette di avvicinarlo a noi con una facilità impossibile con altri artisti della medesima epoca, troppo lontani per soggetti e modi di rappresentarli.
Non è un caso che le secessioni europee, le avanguardie, i modernismi, si appropriassero non solo del suo estremo decorativismo barocco, dei suoi fantasiosi pattern colti dalla tradizione millenaria di ornamento dei kimono e delle carte tinte (karakami) con la tecnica delle mascherine ritagliate, per corredare la linearità del loro disegno che si faceva via via sempre più eclettico e contaminato. Kuniyoshi si pose, più di tutti i suoi contemporanei, come esempio da copiare.
Edoardo Fontana