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Il mito del Re Lucertola

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Ray Manzarek, crogiolante al sole di Venice Beach, a Los Angeles, vede un ragazzo castano avvicinarsi. Ricorda il Morrison suo compagno all’università, ma questo è molto più magro. Scalcia le onde assorto, con l’andamento affettato dei giovani che si cuciono addosso un’aura maudit. Allora sì che è Jim Morrison, avrà pensato Ray Manzarek. Era lui; i due si salutano, chiacchierano, il moro canta il motivo di una canzone (Moonlight drive) che ha scritto, il biondo rimane ammaliato da quella voce.

Alla proposta di creare un gruppo Jim si blocca, come un geko inchiodato su un muro – la lucertola che fa capolino. Alla fine accetta, e si alza dalla sabbia rovente sapendo già come si dovranno chiamare. L’album omonimo, nonché il primo, The Doors si aggiudica disco d’oro e disco di platino nel 1967.

Con Light my fire, tagliata ad hoc per la radio riducendo i sei minuti e mezzo del disco ai due minuti abbondanti del singolo, Jim Morrison viene incoronato di piccole statue greche invisibili. E l’America vede alzarsi per la prima volta il Re Lucertola. A proposito di Jim in quel giorno sulla spiaggia di Venice Beach, Ray Manzarek dirà che gli sembrava un semidio greco dal busto marmoreo, il candore denso del naso e degli zigomi, lo sguardo serio sulle cose. 

Un ragazzo dai boccoli dolci e neri fino alle spalle, un cantante che inventa un nuovo immaginario rock assimilando  la poesia romantica inglese con William Blake, romanzieri come Edgar Allan Poe o Louis Ferdinand Celine, i simbolisti francesi (da Rimbaud a Verlaine, tutti) il teatro surrealista francese – essendo fervido lettore di Antonin Artaud – e la tragedia greca. Sembra il retroterra culturale di un ubriaco, anzi, lo è. Infatti Jim Morrison ha nutrito il mito di se stesso ostentando una maschera da notturna creatura. Fatta della stessa sostanza dell’icona Morrison.

The End è il pozzo di tale immaginario. Sono gli oltre dieci minuti in cui Jim Morrison inserisce durante l’accompagnamento musicale la famosa parte parlata, l’Edipo della beat generation. «The killer awoke before dawn – he put his boots on – he took a face from the ancient gallery / and he walked on down the hall» scandito come se fosse un sermone.

Mentre la voce declama e crescono i grovigli orientaleggianti della chitarra di Robby Krieger, continua a tessere la sua trama monotona la tastiera. Fino all’urlo che scoppia verso la madre. Nei concerti dei Doors, questo brano che raccoglie in modo astuto le icone culturali (come Sulla strada) e concettuali (come la ribellione ai padri) di fine anni Sessanta è infarcito di grida e danze. Ed è la messinscena del cantante-sciamano che usa ogni sfumatura della sua voce cavernosa.

Il timbro in effetti è riconoscibilissimo. È oscuro. Se dovessimo usare una parola per descrivere la voce di Jim Morrison questa sarebbe gloom. Perché in italiano oscurità non arrotonda a sufficienza la bocca. Non ci sono solo carezze vellutate di bassi, certo che no: più spesso il ragazzo della Florida sbraita grugniti o lancia urla taglienti, gridi di rabbia o di gioia infantile. Ma quando fa risorgere il Frank Sinatra che riposa nelle sue corde vocali, e si abbassa scorrendo in modo calmo e placido, Jim, con le mani ad avvolgere il microfono, incanta.

La produzione discografica dei Doors si concentra in cinque anni: dal ’67 al ’71 escono sei dischi, fra loro accomunati dal genere di riferimento, il blues. L’anima negra che vocifera dentro e pressa. Quasi si ripete una formula costruttiva che prevede, album su album, uno o due picchi distinguibili dall’alto minutaggio e dalla densità del legame fra parole e musica.

È il caso delle già citate Light my fire The endWhene music’s over, The soft paradeRiders on the stormIn ciascun disco, eccezion fatta per Waiting for the sun, il terzo, Jim Morrison lascia erompere a torrente la sua vena creativa in testi tinti di surrealismo, evocativi di non si sa che cosa. Ci sono autobus blu, cobra, cavalli frustati, un assassino lungo un’imprecisata strada, lande disperse.

Schegge visionarie che al Re Lucertola non interessa giustificare. Non è un paroliere. In quanto a testi non regge il confronto con Bob Dylan, e non ha portato, come si dice, “la poesia nella musica”. C’è qualcosa di molto goffo quando Jim pretende di essere un sacerdote che apre a parole le porte della percezione. Sa benissimo, invece, che è un cantante (pubblica un paio di raccolte poetiche dove spunta solo una lucertolina) e che gli album dei Doors sono innanzitutto la sua voce, così cupa, e poi la linea del cerchio dentro cui suonano loro quattro insieme, Ray Manzarek alle tastiere, Robby Krieger alle chitarre e John Densmore alla batteria.

Che sia l’anima blues piatta e dura di Crawling king snake o quella più sensualmente tenebrosa di Backdoor man, nasce dall’America abolizionista che ascolta i canti neri nei campi di cotone. Jim Morrison dei nativi pellerossa mantiene il misticismo desertico, rossiccio e sporco, che gli fa provare un amore primitivo per tutto ciò che è allucinazione; sguscia fra i muretti di Venice Beach per stare sotto il sole consapevole della propria bellezza, immobile; passati sei anni, affoga specchiandosi nel suo stesso volto.

Andrea Piasentini

tendimag.com
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Redazione

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