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Il “Tonfo” di Clelia a Bologna

6 minuti di lettura

IL COMUNALE DI BOLOGNA FESTEGGIA I SUOI 250 ANNI CON IL TRIONFO DI CLELIA

A volte il Teatro è come un sogno, uno di quei sogni dove gli eventi si susseguono senza connessioni logiche in un vortice di non-sense: si varca in una porta e ci si trova in un deserto. Dubito, tuttavia, che in un melodramma di un Gluck prima della riforma, su libretto di Metastasio, siano rintracciabili, senza forzature, suggestioni oniriche di qualunque tipo. Il Teatro Comunale di Bologna ha inteso festeggiare i suoi 250 anni di vita presentando proprio l’opera con cui l’edificio fu battezzato, e cioè il Trionfo di Clelia.
La vicenda, tratta da fonti classiche e tipica del suo periodo nello sviluppo complesso e su più piani di affetti civili e privati, è descritta da una musica che non può sicuramente essere annoverata nell’empireo dei capolavori. Nonostante questo sono presenti alcuni brani di buon valore, come quello strumentale che accompagna la battaglia sul ponte, alcune arie di Clelia, oltre che per l’aria di Mannio, di affascinante delicatezza. L’operazione merita quindi sicuramente un plauso, non fosse altro perché ha un indubbio valore storico e culturale per la città di Bologna, a prescindere dagli esiti qualitativi della produzione. Esiti qualitativi che si assestano su un livello di risicata sufficienza per quanto riguarda il lato musicale, mentre sul lato scenico-registico occorrerà fare un discorso più ampio.
La direzione d’orchestra è stata affidata al Maestro Giuseppe Sigismondi di Risio, che scoprì nel 2007 il manoscritto della partitura nel Conservatorio di Bologna, e ha già all’attivo una registrazione dell’opera. La sua prova non è straordinaria, specie perchè le lunghe arie rischiano di annoiare, accompagnate in maniera un poco pallida. Anche la tavolozza degli strumenti avrebbe dovuto essere valorizzata maggiormente, in specie per quanto riguarda i fiati. La sinfonia d’apertura è stata il suo momento migliore, poi via via il fervore è andato scemando.
Il ruolo di Clelia è stato ricoperto dalla brava Maria Grazia Schiavo, di gran lungo la migliore nella compagnia di canto. Il pelo nell’uovo era rintracciabile negli acuti sfilacciati, ma nel complesso l’artista ha dimostrato una grinta che i suoi colleghi non hanno nemmeno sfiorato, tentando di dar vita a un personaggio credibile. Nel resto della compagnia, Burcu Uyar (Larissa) iniziava non bene, migliorando però verso la fine grazie ad una tenue aria: evidentemente le si addice più il canto legato che la frenesia di colorature ed acuti. Orazio era Mary-Ellen Nesi, piuttosto carente nel registro grave, e dotata di un volume piccolo. Un’osservazione: se il volume risulta piccolo in un teatro come quello di Bologna, ottimale per acustica e dimensioni, il difetto probabilment e risulta ancora più grave in sale maggiormente estese e dispersive. Buona prova per Daichi Fujiki, controtenore dal timbro morbido e piacevole, corretto nell’impostazione; non ci siamo, invece, con Irini Karaianni (Tarquinio acidulo ed anonimo) e, soprattutto, Vassilis Kavayas, Porsenna dall’emissione fastidiosamente nasale, con acuti duri e registro grave fumoso.
Veniamo ora alla regia di Nigel Lowery, il quale scomoda a suo favore avanguardie russe e scuole varie. La sua elaborazione scenica, come annunciato all’inizio, pretenderebbe di ricreare un’ambiente-giocattolo, dalle sfumature oniriche. Mi pare, questo tipo di lettura, una sorta di passepartout applicabile a tutte le opere, e dunque valido per nessuna (o per pochissime). L’insensatezza di fondo della regia è acuita da alcune trovate veramente discutibili, che, nell’intento di regalare immagini poetiche, restituiscono invece icone (non volutamente) grottesche. Sono davvero troppe le scene ai limiti del comico sul cui significato il pubblico ha dovuto scervellarsi. Alcune meritano di essere citate: mi sarà difficile ad esempio dimenticare il balletto improvvisato da una bambola gigante. Il tutto mentre la scena si colora di rosa confetto. Inspiegabile l’omicido (per mezzo di una punturona) di Orazio, perpetrato da Porsenna. Orazio ritorna, vivo e vegeto, nella scena seguente, e sembra non patire nemmeno l’asportazione del cuore subita post mortem. Porsenna e Tarquinio, poi, indossavano costumi (firmati Monica Benini) che li rendevano simili all’inquietante Dottor Caligari. Al termine della recita di domenica buon successo per i cantanti, Schiavo su tutti, mentre riguardo a Lowery, nell’intervallo e alla conclusione, i commenti del pubblico non risultavano troppo lusinghieri.

Michele Donati

Redazione

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