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“Io e Annie”: le fobie e le nevrosi
dell’uomo contemporaneo

3 minuti di lettura

Alvy: «L’universo si sta dilatando»
Madre: «L’universo si sta dilatando?»
Alvy: «Beh, l’universo è tutto e si sta dilatando: questo significa che un bel giorno scoppierà, e allora quel giorno sarà la fine di tutto»
Madre: «Ma sono affari tuoi, questi?»

Io ed Annie

La pellicola Io e Annie, che nel 1977 ha consacrato Woody Allen tra i registi americani più conclamati e che gli valse l’assegnazione di quattro premi Oscar l’anno seguente, si apre con il monologo del protagonista Alvy Singer (interpretato da Allen stesso) il quale, con gli occhi puntati verso la telecamera, racconta delle sue riflessioni sulla vita, sulla morte e della sua relazione con Annie che si è conclusa da un anno, intrecciando continuamente il passato con il presente. Il protagonista esordisce con una citazione di Groucho Marx: «Io non vorrei mai appartenere ad un club che contasse tra i suoi membri uno come me»; è solo la prima di una serie di battute irresistibili, che preludono a un nuovo genere di dramma mascherato da commedia, noto con il nome di nervous romance.

I due protagonisti si conoscono a una partita di tennis e l’amore arriva da lì a poco: la storia nasce in una scena da cineteca, con i due che balbettano una surreale conversazione sul senso dell’estetica, mentre i sottotitoli ne svelano i pensieri reali a sfondo sessuale. Nel corso della loro relazione Alvy l’aiuta a sconfiggere le proprie insicurezze sulle sue doti canore tanto che Annie viene notata da un noto produttore discografico californiano, Tony Lacy. È proprio durante il viaggio in California per un provino di Annie che avviene la rottura definitiva: Alvy non sopporta né il luogo né il mondo dei discografici, mentre Annie ne è entusiasta. Dopo qualche tempo, però, sentendo profondamente la sua mancanza, Alvy torna in California a cercare l’amata: il suo viaggio si rivela inutile, in quanto l’ex compagna vive ormai una vita del tutto nuova. La loro storia confluisce in una commedia scritta proprio da Alvy, che però si riserva un finale più lieto. L’errore di Alvy, che lui stesso si riconosce, è stato emancipare Annie alla cultura: più lei progredisce nel suo cammino, più l’amore diminuisce. Secondo Allen, infatti, più si è provvisti di una solida personalità culturale, più si è soggetti a nevrosi e frustrazione continua e più le relazioni amorose sono a rischio.

Con questo pensiero Woody Allen sembra giunto a un bivio, dove la costante ricerca del successo e dell’autorealizzazione esclude una relazione sana e felice. In una scena in cui Alvy si interroga sull’amore e non si capacita di come esso possa essere finito, una signora che incrocia per strada gli risponde bruscamente che: «L’amore svanisce»; ma egli, insoddisfatto, comincia a fare domande ai passanti e vede una coppia apparentemente felice:

Alvy: «Ecco, voi voi, sembrate una coppia molto felice, lo siete?»
Entrambi: «Sì!»
Alvy: «E questo a cosa lo attribuite?»
Ragazza: «Oh, io sono superficiale, vuota e non ho mai un’idea e… non ho niente di interessante da dire»
Ragazzo:«Io lo stesso»
Alvy: «Ah capito, avete unito le vostre intelligenze, così da due almeno uno…»

Ma è sicuro che si possa essere felici unicamente così? Questa è davvero felicità? Il protagonista non sembra trovare una risposta esauriente. Nella scena finale si vede Alvy osservare i due attori della sua commedia che recitano la scena finale – dove diversamente da quanto avvenuto nella realtà Annie decide di rimanere insieme a lui – e chiarire il suo pensiero dicendo: «Che volete, era la mia prima commedia e sapete come si cerchi di arrivare alla perfezione almeno nell’arte, perché è talmente difficile nella vita!».

Dunque Alvy, raccontando l’evoluzione, la felicità, il deterioramento e la fine del suo rapporto d’amore, si interroga riguardo a quali problematiche psicologiche, in lui presenti fin dall’infanzia, possano aver influito su una storia così bella, così utilizzando split-screen, dei piani di sequenza e flashback intraprende un percorso psicoanalitico: ricorda la scuola, il suo interesse precoce per le ragazze e la grave depressione che lo accompagna fin da bambino, dovuta all’espansione dell’universo, che gli ha procurato una totale perdita di piacere.

Io ed Annie

Affiancato da Marhsall Brickman, il regista partì prima da un romanzo giallo per poi approdare a una storia sentimentale, cambiando addirittura il titolo: da un iniziale Anedonia (che in greco denota l’impossibilità di provare piacere) si giunse ad Annie Hall, dal diminutivo e dal cognome di Diane Keaton. Non si può negare, infatti, che l’intero film sia un’ode alla deliziosa Keaton, con le sue gag, i suoi sorrisi e le sue improvvisazione, ma bisogna tener conto che dietro all’omaggio alla compagna di quegli anni si cela l’egocentrismo di Allen. È lui il vero protagonista, il paziente seduto sul lettino dell’analista, che, riuscendo ad alternarsi dentro il film e all’esterno, è sia personaggio sia osservatore.

Allen psicoanalizza, indaga e sviscera in tutte le forme il sentimento dell’amore, ma l’unica sua vera prerogativa è l’assoluta irrazionalità e unicità di questo sentimento. La psicoanalisi, che nelle opere precedenti faceva solo un timido capolino, qui si instaura ferocemente nella narrazione, a partire dalla trama del film stesso: il protagonista porta avanti una psicoanalisi della sofferta relazione. Sul versante dei codici espressivi, la pellicola investe definitivamente l’interpretazione del maestro, marcata già da un’ironia jewish e parossistica, rievocando la propria fama di one man show. Nella commedia non solo sono presenti grandi innovazioni, una su tutte lo sguardo puntato verso la cinepresa, ma i pensieri del protagonista e le vignette in stile fumettistico – basate su una striscia comica del regista, Inside Woody Allen – contribuiscono a definire Io e Annie una commedia moderna.

Nicole Erbetti

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Redazione

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