Partire in cerca di fortuna, partire nella speranza di lasciarsi alla spalle fame e povertà. Andare al di là del mare credendo ai sogni e alle promesse. Viaggiare stipati come merci sul fondo di una nave.
Detta così sembra la storia dei profughi che a migliaia affollano le nostre coste. Detta così sembra la storia di quella gente tanto magra e dalla pelle un po’ scura, che molti di noi sono soliti guardare con diffidenza. Detta così sembra la loro storia, ed invece è la nostra, la storia degli italiani all’estero.
In cento anni di storia, tra il 1870 e il 1970, circa ventisette milioni di italiani partirono all’estero alla volta di una nuova vita, lasciandosi alle spalle il Bel Paese. Questo massiccio flusso migratorio si verificò nei primissimi anni dopo l’unità d’Italia, a partire 1870 circa. Spesso sentiamo “illustri” opinionisti e politici del caso recitare la seguente frase: siamo concordi nel dare asilo alle persone che scappano dalla guerra, non altrettanto a quelle che scappano da miseria e povertà.
Sarà un problema di limitata memoria a portarli a dire ciò: nel 1872, soprattutto in meridione, l’Italia versava in condizioni di assoluta arretratezza. Povertà ma non solo, circa il 68% degli italiani al tempo era completamente analfabeta, l’aspettativa di vita non superava nella media i trentacinque anni e circa trecento bambini l’anno morivano per malnutrizione o durante il parto.
L’unica soluzione era partire. I primi italiani a partire all’estero furono i nostri bambini, giovanissimi tra i sette e i quattordici anni venduti come forza lavoro in cambio di circa, facendo una proporzione con la valuta attuale, 400 € l’anno. Furono migliaia i contratti di questo tipo stipulati, che oltre allo sfruttamento della forza lavoro più che minorile, prevedevano la completa cessione dei diritti e doveri del genitore nelle mani del padrone.
Le varie propagande del tempo dipingevano l’America come l’elisir di lunga vita. Si diceva che in quelle terre lontane fosse tutto più semplice, che si lavorasse poco e si mangiasse in carrozza. Gli agenti migratori propagandavano alle famiglie disperate una vita nello sfarzo: in America si balla, ride e si va a teatro tutte le sere.
Questi uomini erano, senza alcun dubbio, fatti della stessa pasta degli attuali scafisti, come quello che pochi giorni fa ha promesso alla bambina malata di diabete un’imbarcazione piena di comfort e servizi medici e che poi invece l’ha stipata in un barcone come una bestia, buttando in mare l’insulina e le siringhe necessarie alla sua sopravvivenza, lasciandola così morire tra le braccia del padre.
Anche noi italiani facevamo così. Non ci limitavamo infatti di propagandare un futuro radicalmente diverso da quello che poi i migranti effettivamente trovavano nel nuovo mondo, ma li illudevamo. Un biglietto per le Americhe costava l’equivalente di 700€, che per l’epoca erano i risparmi di una vita, contando che si poteva arrivare a vendere un figlio per poco più della metà. Le compagnie navali, consce dell’elevato prezzo, sbandieravano viaggi ultra lusso in navi signorili. Bastava un attimo per capire la menzogna: folle gigantesche di famiglie venivano stipate nelle stive, li restavano per settimane con dosi minime di cibo, tra i loro escrementi, diventando portatori di malattie come la varicella, il morbillo e la malaria.
Ci lamentiamo della scabbia, che è poco più di un’irritazione cutanea curabile con pomate, ma nel 1800 le malattie che portavamo noi erano mortali: perdere uno o due figli era l’ulteriore tassa per chi prendeva il largo; i loro corpi, proprio come oggi, venivano lasciati in mare. Navi di Lazzaro, così venivano chiamate.
Quando ci lamentiamo dei numeri, non pensiamo che tra il 1887 e il 1902 circa 900.000 tra veneti e friulani sbarcarono in Brasile e circa un milione e mezzo di italiani arrivò sulle coste di New York. I numeri erano così impressionanti che per molti che arrivavano giungere in America voleva dire proprio rincontrare una fetta del paese natio.
Spesso sentiamo paragonare i migranti a scimmie, il che è quanto di più stupido possa fare un popolo che, nemmeno cento anni fa, veniva accostato a dei pestiferi roditori. L’italiano che giungeva in America infatti, non veniva accolto con feste e dolciumi. I quotidiani dell’epoca strillavano titoli come «occhio che sbarcano i sorci giunti dai più putridi bassifondi europei». Ed è proprio qui che uno potrebbe porre la domanda: quando poteva essere difficile ambientarsi in un paese che definiva queste famiglie, questi figli, queste mogli, come bestie?
«Questi immigrati ci stanno invadendo, noi andavamo in America per lavorare». È vero, questo era il nostro intento, eppure non basta dichiarare una volontà per essere accettati, non basta dire «sono una brava persona, voglio solo mangiare» per essere considerati tale agli occhi della società. Noi, come i siriani odierni, scappavamo dalla fame in cerca di un impiego che avrebbe potenzialmente garantito un futuro migliore ai nostri figli, eppure, per quanto nobili fossero le nostre intenzioni, i padroni di casa si sentivano invasi, braccati.
Ci chiamavano bat, pipistrelli, perché come questi animali sono un incrocio tra un ratto e un uccello, noi eravamo un ibrido: mezzi bianchi e mezzi neri. In un paese dove vigevano ancora le leggi sulla separazione delle razze, la stampa del tempo alimentava l’odio dell’opinione pubblica definendoci “non bianchi, impuri, sporchi.” Lo sporco usurpatore, quindi, eravamo noi.
Come la storia insegna, quando un paese vive dei momenti di forte contrasto sociale e politico, di cambiamento e rivendicazioni, il capro espiatorio di ogni male sarà sempre il più debole. E se oggi tutta la criminalità d’Italia, a detta di molti, è perpetrata dalle mani clandestine, nel 1891 quelle mani erano le nostre.
Proprio quell’anno, a New Orleans, il capo della polizia venne assassinato. Nessuno aveva visto niente, non c’erano colpevoli o prove. Il sindaco emise un mandato di cattura contro gli italiani, senza specificare quali e perché. Ne vengono presi 150 indistintamente e interrogati. Circa 20 persone vennero indicate come presunti colpevoli, processati e successivamente assolti per mancanza di prove. Fu il tribunale del popolo a stabilire chi fossero i colpevoli: circa 20.000 persone assaltarono la prigione, trascinarono fuori undici italiani: due vennero impiccati mentre agli altri nove di loro spararono a bruciapelo. E così continuò per dieci anni. All’urlo di «castigo e vendetta» circa 26 italiani furono vittime dei linciaggi. Era sempre, indistintamente, colpa nostra.
L’intero popolo, la stampa, gli esponenti politici, l’opinione pubblica ci dipingevano così, e ci detestava. Alcune affermazioni e molti passaggi però, non possono esserci del tutto nuovi alle orecchie.
«Si suppone che l’Italiano sia un grande criminale. È un grande criminale. L’Italia è prima in Europa con i suoi crimini violenti. […] Il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio e ubriaco furioso dopo un paio di bicchieri. Quando è ubriaco arriva lo stiletto. […] Di regola, i criminali italiani non sono ladri o rapinatori – sono accoltellatori e assassini».
Dal New York Times, 14 maggio 1909
«Livorno, rissa fra gli immigrati “ospiti” nella casa delle ragazze madri, botte e sedie che volano, interviene la Polizia. Alessandria, un sudamericano aggredisce con spranga, calci, pugni e morsi, un passante, arrestato dalla Polizia. Pisa, un ventenne immigrato è stato arrestato, avrebbe violentato una ragazza sul treno che arrivava da Livorno. Ancora aggressioni e violenze da parte di immigrati irregolari tanto cari a Renzi e Alfano».
Matteo Salvini, 18 Luglio 2015
Dunque è la nostra storia, o la loro?
di Margherita Vitali
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