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La musica è per tutti?

7 minuti di lettura

La musica ha mutato pelle col passare degli anni, adattandosi alle diverse esigenze del mercato. Così come l’economia, anch’essa è diventata globale. Noi, figli della rivoluzione informatica – tant’è che in questo stesso momento stiamo usufruendo di un supporto digitale – ascoltiamo brani da Youtube, da Spotify, da TimMusic, li compriamo da iTunes o da Google Play. Certo, ciò non vuol dire che vinili, musicassette e CD siano spariti; anzi, gli artisti puntano ancora sull’amore dei musicofili per il buon(issimo) quanto vecchio 33 giri. Per approfondire il tema si consiglia questo articolo di Repubblica, in occasione del Record Store Day 2015. Ma ora torniamo al punto di partenza: la rivoluzione dello streaming come sta cambiando il rapporto tra canzone e ascoltatore? Cosa significano slogan come «la musica è per tutti» (Spotify) o «un luna park per le tue orecchie» (iTunes)? Che svantaggi ci sono per i musicisti, e quanto valgono ora i loro concerti? Proviamo a vederci chiaro.

Spotify logoSpotify già nel 2006 era nella mente dell’imprenditore svedese Daniel Ek. Nel 2008 la distribuzione ufficiale, nel 2013 l’annuncio dell’opzione gratuita “riproduzione casuale” e dell’estensione a smartphone e a tablet, nel 2014 il tempo illimitato di ascolto. Ed ecco raggiunta la chiave del successo. Perché pagare un album (ipotizzando il costo medio di 15 euro) quando per 9,99 euro al mese si può accedere a qualsiasi traccia, conoscere qualsiasi artista senza la connessione a internet oppure, ancora meglio, ascoltare gratuitamente senza limiti di tempo album, radio create da algoritmi, playlist pubbliche? Spotify Free e Spotify Premium hanno così impresso un’accelerata straordinaria allo streaming musicale via internet, superando YouTube. La grande vittima è il mercato del download illegale, e questo è il miglior apporto della rivoluzione digitale. Ne ha parlato Caparezza su l’Espresso. Il rapper pugliese ha centrato il cuore della riflessione: quella dello streaming musicale è una «rivoluzione relativa». Se da una parte all’ascoltatore vengono offerti un’ottima alternativa al mercato illegale e accessibilità a prezzi modesti, dall’altra a guadagnarci sono le grandi case discografiche (Sony, Warner, Universal ecc.) e le popstars più commerciali – oltre ovviamente all’azienda che ha ideato il programma in questione. Il biglietto del luna park per le nostre orecchie, in conclusione, è strappato dai soliti noti ed è per una partita squilibrata: conveniente per utenti, case discografiche e grandi musicisti, umiliante per chi ha bisogno di emergere.

David Byrne (sx) e Thom Yorke (dx) nello studio dei Radiohead
David Byrne (sx) e Thom Yorke (dx) nello studio dei Radiohead

Più d’un volto famoso ha pubblicamente criticato questo sistema, dai Black Keys al leader dei RadioheadThom Yorke. Quest’ultimo ha lanciato così la propria denuncia disgustata, definendo Spotify: «The last desperate fart of a dying corpse». L’ultima disperata scoreggia di un corpo morente. E sul suo profilo Twitter, motivando la propria scelta di cancellare i suoi brani dalla piattaforma: «Non fate l’errore di pensare che gli artisti emergenti che scoprite su Spotify vengano pagati. Nel frattempo gli azionisti diventano sempre più ricchi. Semplice». E al coro si aggiunge il grande David Byrne, l’anima dei Talking Heads, con questo articolo per il Guardian. In Europa, l’azienda di Daniel Lek è la seconda fonte digitale di entrate per le case discografiche, e indubbiamente questo ha rialzato le sorti di un mercato moribondo. Secondo dati pubblicati dalla Federazione dell’industria musicale italiana (Fimi), in Italia lo streaming ha fatto incassare 17,2 milioni di euro appena nei primi sei mesi del 2015. Il valore del mercato italiano complessivo è aumentato del 23%. Ma le sue componenti più piccole, le case piccole e gli indipendenti, subiscono il peso delle grandi piattaforme digitali. Sono tante – Deezer, Apple Music, ecc. – ma nell’articolo sopracitato David Byrne puntualizza che «ne rimarrà solo una, alla fine. Non ci sono due Facebook o due Amazon. “Dominazione e monopolio” è il nome del gioco nel business del web».

Il vero grande aiuto che si può dare agli artisti emergenti è partecipare ai concerti, sempre più vitali, sudati. Non è un caso se, come notato da Caparezza, l’ascolto gratuito del disco serve a incentivare la presenza all’esibizione dal vivo. Per diffondere il proprio nome le band si avvalgono già di siti come bandcamp e delle potenzialità dei social network: qualsiasi gruppo sa che non può vivere di Spotify, di Apple Music e di TimMusic. Quindi, con lo streaming la musica è per tutti? Sì, e su questo non ci sono dubbi, però a dire grazie sono i soliti. Vi sbagliate se pensate che a criticare questa ingiustizia ci siano solo le etichette indipendenti o artisti (storicamente) controcorrente come David Byrne e Thom Yorke. Taylor Swift si è sdegnata quando ha saputo che Apple non avrebbe pagato i musicisti durante i tre mesi gratuiti di Apple Music. A Giugno ha annunciato di non concedere i propri pezzi, troppo grande il sopruso. Ma pochi giorni e pace fatta: l’azienda fondata da Steve Jobs ha accettato di pagare anche nel periodo di prova, e la Swift è tornata sui suoi passi.

Andrea Piasentini

Thom Yorke Spotify

 

 

 

Redazione

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