È dal 1955 che una giuria di esperti si ritrova ad Amsterdam con il compito di selezionare tra migliaia di foto (quest’anno ben 103˙481) lo scatto dell’anno, quello che per immediatezza e forza espressiva rappresenti uno dei momenti più significativi dei dodici mesi appena trascorsi. Le categorie sono otto, doppie: foto singole e storie. La conditio sine qua non: le foto devono essere esposte senza alcune censura.
Presente all’inaugurazione, Femke van der Valk, la coordinatrice delle mostre del premio olandese, mi racconta, in un’intervista improvvisata, che non sa come si diventi un fotografo professionista (“You see, I’m not a photographer”), ma che chi scatta deve sforzarsi di trovare il punto di vista inaspettato, l’angolazione giusta tramite cui raccontare una storia.
Passare da una foto all’altra significa muoversi tra Gaza, il Brasile, la Somalia e l’Iraq: come souvenir niente calamite né porcellane caratteristiche, solo corpi e sguardi lacerati di realtà che allo spettatore, coccolato tra quelle mura bianche che si affacciano su di un terrazzo fiorito, non potrebbero apparire più lontane. Ecco lo scopo dell’iniziativa: sensibilizzare, rendere visibile una quotidianità di morte e sangue, di lacrime e bombe, che è viva, non fossilizzata nei libri di storia.
In pochi sanno restare in silenzio dinnanzi ai volti di madre e figlia sfigurate dall’acido gettato loro addosso da un padre-marito ingiustificabile. Non si trovano parole per commentare gli occhi penetranti, cerchiati da un eyeliner vistoso, di una madre di tre figli che si prostituisce dall’età di diciotto anni. Si racconta del tempo ballerino, dei figli che proprio non ne volevano sapere di fare i compiti quella mattina, ma lo spazio bianco generato dalla violenza non osa riempirlo nessuno. E’ l’immagine che, coraggiosamente, si fa avanti ed esprime un senso che vive e respira indipendentemente dalla fragilità delle parole. Le foto chiedono di esistere, di essere guardate, di farsi specchio di una realtà diversa; ma chiedono anche di poter guardare, di toccare occhi, cuore, testa di chi guarda, di scuoterci per il bavero e di strapparci qualche respiro perché dinnanzi alla morte, dinnanzi al dolore, non c’è jeans, non c’è borsa che tenga: siamo tutti, inevitabilmente e finalmente, uguali.
Alessandra Di Nunno