La nostra memoria e le nostre radici intrecciate alle storie di integrazione e ai rapporti interculturali, affrontati tramite la realizzazione di documentari e audiovisivi per promuovere una coscienza critica sul tema delle migrazioni. Questa la mission dell’Associazione Culturale “Geronimo Carbonò” nata nel 2011 a Viola, piccolo comune della provincia di Cuneo, e che, fin dal proprio nome, vuole porre l’attenzione sull’uomo migrante il quale per scelta, volontà o necessità si ritrova ad abbandonare la sua terra, diretto verso l’ignoto.
Geronimo Lagomarsino – poi Carbonò – altri non era che questo: un emigrante che nei primi anni dell’800, rimasto orfano, decise di lasciare l’Italia e fu imbarcato per vent’anni, nella flotta di Simón Bolívar, il Libertador dell’America Latina, partecipando alla lotta di liberazione della Gran Colombia contro l’armata spagnola e ai successivi conflitti della neonata República de la Nueva Granada. L’intento di Bolívar fallì, la Nueva Granada venne suddivisa in Colombia, Venezuela ed Ecuador. Nel 1833, tre anni dopo la morte del Libertador, Carbonò chiese al neopresidente colombiano di ricevere una pensione per poter vivere dignitosamente ma non ricevette mai risposta. L’istanza venne ritrovata, nei primi anni del 2000, da un discendente, Jaime Lastra, che si adoperò per recuperare la cittadinanza italiana, rifiutata però dall’ambasciata a Bogotà. Questa è in sintesi la storia che ha ispirato la nascita dell’Associazione Geronimo Carbonò.
Incontriamo due dei fondatori dell’Associazione, il regista Sandro Bozzolo, classe 1986, che ha appena conseguito il dottorato in Migrazioni e Processi Interculturali all’Università di Genova, documentarista, blogger e viaggiatore, e il presidente Alessandro Ingaria, giornalista e ideatore dei tanti progetti audiovisivi realizzati dall’Associazione, vincitori di premi anche internazionali.
Grazie innanzitutto per la vostra disponibilità. Avete realizzato documentari sui migranti europei, soprattutto giovani che cercano fortuna e lavoro all’interno dei paesi membri della UE. “Return or never have left” è un vero e proprio studio del fenomeno, con un’attenzione ai risvolti umani, dalla perdita dell’identità e delle proprie origini, alla possibilità di un ritorno al proprio paese. Cosa avete tratto da questo progetto?
Sandro: Se stiamo parlando di migranti all’interno dell’Europa, vuol dire che non siamo ancora capaci di immaginarci l’Europa come una sola grande nazione. Come fanno ad essere migranti se in fondo non sono mai partiti? La gente ha bisogno in qualche modo di sentirsi parte di qualcosa. I regionalismi, i localismi, i sentimenti di appartenenza territoriale che hanno caratterizzato qualsiasi luogo del mondo, almeno per le civiltà che non sono nomadi, continuano a esistere. In questa occasione, avevamo intervistato i cosiddetti migranti di alta professionalizzazione – non la working class ma una fascia più specializzata – che comunque avvertivano questo sradicamento.
Alessandro: Per la prima volta, intervistando migranti italiani ho percepito il vuoto che viene lasciato nella comunità di partenza, le occasioni perse, di quanto un paese butti all’aria capacità e professionalità, non essendo in grado di trattenerle. Lo vedi proprio cercando gli italiani all’estero, non guardando gli altri migranti in Italia. Questo senso di vuoto esiste.
Cosa si potrebbe fare, qui in Italia, per tentare di arginare questa fuga continua?
Sandro: Questo “bisogno dell’altrove” fa parte della natura umana. Quello che forse dovrebbe cambiare è una maggiore capacità di ascolto da parte della società nel suo complesso. Molti degli intervistati tornerebbero, ma si trovano in quella condizione paradossale per cui sarebbero comunque spaesati. «Abbiamo perso una generazione – dicevano – Siamo stati via 7 anni, la nostra vita com’era al momento della nostra partenza non c’è più. Gli amici nel frattempo hanno avuto un’evoluzione in Italia». Si parla tanto di società liquida, di fluidità, di mobilità, ma bisognerebbe prima renderla possibile.
Alessandro: Siamo una società che va incontro a un lento declino: la cultura, sia materiale sia immateriale, si va perdendo. Viviamo una situazione che ricorda le sabbie mobili: più ti muovi, più sprofondi. Non riesci a cambiare la società in cui sei, ma hai voglia di fare, e allora tendi a rivolgerti altrove, ad andare via in un’altra società che non sia la tua. Forse in un ambiente nuovo soffri di meno, perché è più facile essere stranieri, non ne fai parte compiutamente, per cui lo vedi con più distacco, puoi passarci uno o dieci anni ma alla fine non gli appartieni veramente. Una possibile soluzione sarebbe andare nel senso contrario di oggi: anziché ri-erigere muri, continuare ad abbatterne, perché più crei muri più rendi le persone fredde e distanti.
In fondo, questa è la condizione che vivono gli stranieri e i profughi nel nostro paese, che stanno dall’altra parte del “muro” di intolleranza…
Alessandro: Nei periodi di crisi, non vedi mai il buono che hai ma vedi solo quello che ti manca. Non sei in grado di dire “forse ho vissuto al di sopra delle mie possibilità”, c’è sempre qualcun altro a cui dare la colpa.
Sandro: Ora forse ci sarebbe da considerare l’intolleranza di alcuni ex migranti che vivono in Italia già da un po’ verso i nuovi che arrivano, pensiamo alle comunità romene, o albanesi o marocchine, insediatesi negli anni ’90-2000 che si scagliano contro gli arrivi dei profughi, cosa curiosa e desolante…
Nell’estate 2014 avete creato il progetto Ilmurrán, portando Leah, una ragazza Maasai, sulle Alpi Marittime per una stagione di alpeggio condivisa con Silvia, “pastora” piemontese. Un vero e proprio docu-film interculturale tra due mondi molto diversi, che ha dato luogo anche alla pubblicazione di un libro e a un programma rivolto alle scuole per la sensibilizzazione ai temi dell’integrazione e “del patrimonio antropologico racchiuso nell’agricoltura”. Come è nato questo progetto e come è stato possibile realizzarlo?
Sandro: È nato proprio per un bisogno di “altrove”, di fondersi con l’altro, per non cadere in queste sabbie mobili, perché siamo sempre legati a quello che conosciamo e sempre meno desiderosi di scoprire l’ignoto. Avevo conosciuto in Kenya Leah, una ragazza dall’incredibile lucidità di analisi e dalla voglia di porsi in gioco. Sono rimasto talmente affascinato dalla sua personalità da voler continuare il nostro dialogo e cercare di farlo conoscere a più persone possibile. Abbiamo messo in cantiere il progetto interculturale e abbiamo invitato Leah in Italia e nel 2014 è riuscita ad avere il visto. Le stesse senzazioni che ci legavano a Leah, le ho avvertite con Silvia. Per quanto ci possiamo definire difensori dell’identità, non sappiamo nulla di come si vive l’autentica agropastoralità alpina piemontese. Silvia e suo figlio Simone sono due persone fuori dagli schemi che hanno una complessità di dialogo enorme, sono pastori di pecore nomadi che vivono in isolamento molti mesi all’anno, e allo stesso tempo sanno tutto quello che devono sapere sul mondo, e hanno opinioni molto più valide di tanti “esperti”… Degli 80 giorni di riprese in montagna, in alcuni non abbiamo nemmeno acceso la telecamera, ci siamo persi in questo ambiente, giorni in cui abbiamo lavorato, portato pesi sotto la pioggia, con dislivelli di 500 m. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. L’obiettivo vero era la possibilità di passare 3 mesi a contatto con una persona il più possibile come me – perché io e Leah abbiamo visioni del mondo molto simili – che avesse un altro colore della pelle, con una storia lontanissima e diversa dalla mia. Mi ha insegnato tantissime cose, come spero di avere fatto io con lei…
Come comunicavano Silvia e Leah?
Sandro: Comunicavano lavorando. Leah vedeva cosa faceva Silvia, sono azioni meccaniche che capiva e ripeteva. Comunicavano anche attraverso il tatto, ma soprattutto perché sono due donne. E poi comunicavano chiudendosi a riccio contro l”l’altro”, il nemico, l’invasore… cioè io, in questo caso. In Kenya esiste la parola musungu, che identifica “gli altri”, coloro che fanno cose insensate, e che è poi diventato sinonimo di “uomo bianco”. I pastori di montagna, invece, dividono la popolazione alpina in tre categorie: i muntagnin, ossia coloro che abitano la montagna, i “nemici tollerati” tipo i guardiaparchi, i gestori dei rifugi che sono in montagna per lavorare, poi ci sono i turisti, i patachin, quelli che vanno in montagna per fare della fatica inutile e si vestono in modo buffo. Io rappresentavo sia il musungu che il patachin, quindi Leah e Silvia si “coalizzavano” contro di me…
Grazie alla presentazione de Ilmurrán anche nei cinema e nei teatri, oltre che nelle scuole, il film ha la possibilità di incontrare un pubblico variegato. Come viene accolto?
Sandro: Stiamo toccando pubblici veramente diversi, lo abbiamo portato a platee di cinema di montagna e di città, a persone interessate all’Africa, a studenti – gli interlocutori migliori –, lo abbiamo presentato in Kenya, in rassegne dedicate al cibo e all’agricoltura, insomma in contesti diversi e la reazione è sempre la stessa: un’enorme empatia con le due protagoniste. Queste due donne hanno una capacità enorme di raggiungere il pubblico e molto spesso vedi la commozione in chi guarda. Nel film abbiamo aggiunto il minimo indispensabile, abbiamo lasciato più spazio possibile a loro. Ci tengo a sottolineare l’importanza delle musiche di Ciro Bùttari, musicista e ricercatore sonoro che ha puntato sul canto e sulla voce come forma primordiale di comunicazione. Quando abbiamo capito il potere di questa scelta, abbiamo cominciato ad invitarlo alle presentazioni. In realtà, il pubblico pensa di venire a vedere un film e se ne esce cantando.
Quali sono i progetti a cui siete più legati e che vi hanno dato più soddisfazione?
Sandro: Siamo legati a tutti. Ognuno è stato una genesi di cose che abbiamo imparato, incontri che abbiamo fatto, conflitti, evoluzioni. Come Associazione è stato fondamentale “Le voci del Tanaro“, un collante lungo il territorio, un viaggio come quello di Annibale, un grido con l’Ape e il coniglio per dire “Ci siamo”. Ha anche permesso di aggregare persone generose e appassionate, di ogni categoria sociale, che hanno risposto a questo richiamo.
Alessandro: Da lì abbiamo scoperto l’esistenza della “Tanaria“. Una volta che le si è affibbiato un nome, tutti l’hanno vista e riconosciuta. Identificare una pseudo-nazione con le terre bagnate dal suo fiume ha acceso qualcosa dentro. La Tanaria esiste, con delimitazioni un po’ vaghe ma c’è. Tornando ai progetti, ognuno è nato da una curiosità e da un bisogno. Il primo lavoro “Amazzonia” è nato come curiosità. Tornati in Italia – perché entrambi siamo “migranti di ritorno” – abbiamo avuto il bisogno di riscoprire questo territorio, quindi dialetti, usi e tradizioni. E se anche i progetti successivi non erano a 4 mani, perché ognuno di noi era impegnato in temi diversi, inconsapevolmente li abbiamo creati in uno stile riconducibile all’associazione.
Sandro: E forse l’artefice di questo “stile Geronimo” è Marco Lo Baido, il terzo collaboratore di tutti i progetti, che si occupa del montaggio, una fase molto importante ma che rimane dietro le quinte.
Alessandro: È anche un ottimo musicista, l’anno scorso ha vinto un premio per la miglior colonna sonora per un mio cortometraggio.
Su cosa state lavorando ora e quali sono i vostri progetti futuri?
Sandro: Sto lavorando al ricco materiale su Geronimo Carbonò, la cui vicenda in certi punti è ancora oscura, e a cinque storie interessanti di migrazioni in Colombia, una riguarda due italiani che sono stati pionieri del cinema colombiano e che là hanno creato un impero.
Alessandro: Con un’amica spagnola, Isabel Herguera, abbiamo realizzato un cortometraggio d’animazione, “Amore d’inverno” con cui saremo al Festival di Annecy a giugno. Le rassegne più prestigiose sono quelle di Lipsia, Bruxelles, Zagabria, Annecy, e questo film è risultato finalista in tutti. Isabel ci ha coinvolti come co-produzione al suo lungometraggio che sarà prodotto probabilmente dalla casa di Banderas, ciò significa entrare nel circuito del cinema internazionale. A livello documentaristico, sto cercando di accoppiare una storia locale e una storia globale, con un lavoro che si intitolerà “Nostra signora del labirinto” e che dovrebbe essere una co-produzione italiana e straniera.
I PREMI E I RICONOSCIMENTI
Amore d’inverno (7’, 2015)
Miglior cortometraggio d’animazione Festival Alcine 2015 (Spagna)
Ilmurràn-Maasai in the Alps (39’, 2015)
Premio “Vie des hommes” 32° Autrans Film Festival (Francia)
Premio “Torino e le Alpi” Cinemambiente 2015
Premio “Un pais – uno lengo” assegnato dal Centro Culturale Prouvençal Coumboscuro (2015)
Menzione speciale all’unanimità FCAAAL di Milano 2016
Selezione Trento Film Festival 2015
Pianeta Marguareis (10’, 2015)
Selezione Trento Film Festival 2015
Hals (9’, 2015)
Premio “Machiavelli Music” al Piemonte gLocal Movie 2015
Miglior cortometraggio sperimentale al Montecatini Film Festival 2015
Selezione Anim Film Festival 2015
Anticorpi (1’, 2015)
Finalista al concorso “Crederci, Combattere Guarire” 2015
#Austerity (7’, 2014)
Selezione 4° Seminario “Contested Cities” – Ciudad de Mexico 2015
Primo premio al concorso “Corti senza fissa dimora” di Potenza 2014
Selezione festival “Shortini” 2014
Finalista al concorso “Rai – Servizio Pubblico” 2014
Il Castagneto Acustico (15’, 2014)
Selezione “Lavori in Corto” di Torino 2014
Selezione “Fest Fest Europa” di Cuneo 2014
Piero va per il mondo (7’, 2014)
Finalista Concorso Cinevox 2014
Hobohemia (59’, 2013)
Finalista al “Levante International Film Festival” di Bari 2013
Amazonia 2.0 (42’, 2012)
Vincitore dell’EtnoFilm Fest di Monselice 2012 (cat. Amerindie)
Selezione Premio Marcellino De Baggis 2015
Lettere da Bucarest (16’, 2012)
Primo premio al concorso “Sguardi Visioni Storie” di Lanusei 2014
Premio miglior fotografia festival “I bagonghi” 2012.
Selezione al CinemAvvenire di Roma 2012
Selezione festival Pafid Patagonia 2012
Aigua, Eua, Oiva, Aqua – Le voci del Tanaro (88’, 2012)
Premio al miglior film nel concorso “Uno Terro Uno Lengo” del Coumboscuro Centre Prouvençal 2013
Portare il pesce o insegnare a pescare? (3’, 2011)
Quarto classificato al Premio Informazione Digitale “La Stampa” 2011.
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