Luigi Ghirri (1943-1992) è stato spesso definito “filosofo con la macchina fotografica”. Il fotografo emiliano, scomparso a soli 49 anni, era anche editore, curatore e organizzatore di mostre, un uomo capace di scuotere l’anima con i suoi scatti.
Cosa pensava Luigi Ghirri mentre guardava i paesaggi che poi sceglieva di trattenere? Che umore aveva? Era triste, felice o innamorato? Si prova, guardando quelle immagini, la curiosità per l’uomo dietro l’obbiettivo. Cosa sentiva, cosa pensava? Da dove arriva la delicatezza e la tenera e pura semplicità dei suoi scatti? Guardando le sue foto viene da chiedersi se quei paesaggi siano esistiti davvero, se quelle città, quei palazzi e quella gente, che sembra capitata un po’ per caso nelle sue foto, non siano ancora lì immobili ad attendere in uno spazio senza tempo, sospeso. Quel mare, così perennemente presente, non sarà ancora lì in onde mai finite che aspettano un ritorno?
Sospeso è il tempo nelle foto di Luigi Ghirri, che sembra fotografi l’attimo prima che qualcosa succeda, che fotografi le cose come vogliono mostrarsi. Come lui stesso più volte ha affermato, con la sua fotografia mirava a condurre chi guarda a «perdersi, perdersi e non ricordarsi più di se stessi». Ghirri amava fotografare ciò a cui nessuno prestava attenzione: la strada per andare a lavoro, i suoi libri, gli atlanti. Per lui, la fotografia, aveva lo scopo di ridare dignità alle cose, sottrarle allo sguardo superficiale di chi guarda distrattamente. Più che alla foto in sé, era interessato all’atto del guardare e del fotografare.
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Non è un caso che molti dei soggetti delle sue foto siano persone ritratte di spalle, o persone che, a loro volta, scattano foto o osservano attentamente qualcosa. Sono persone sfocate, fotografate dietro veli, schermi. La malinconia, la nostalgia, l’abbandono nelle foto di Luigi Ghirri prendono consistenza, diventano immagini sfocate, veloci pur restando immobili. Sono immerse nella nebbia, che tutto confonde e rende indefinito, impalpabile. Proprio la nebbia che avvolge il volto di una donna su una panchina. Sembra bella quella donna, una donna che non è pienamente, c’è e non c’è, la sua realtà la si percepisce, non la si vede chiaramente. È lì, su quella panchina e nella nostra mente in attesa di un tempo che sta per accadere.
Le foto di Ghirri hanno un tipo di fascino che solo le cose semplici hanno, un insieme di semplicità e meraviglia e di meraviglia della semplicità, come quando, nel ’74, decise di fotografare ogni giorno il cielo per comporne un vasto pannello con 365 vedute del cielo. Per Luigi Ghirri, la fotografia, era uno strumento per conoscere il mondo e allo stesso tempo era interessato a capire come il mondo potesse essere pienamente conosciuto, vissuto.
Nelle sue foto, che sembrano quadri, vi è la straziante poeticità del non ancora, del mai futuro, di un presente che nel momento in cui accade diviene già malinconico passato. Le immagini che Ghirri cattura sembrano luoghi dimenticati, nostalgici, che sono rimasti immobili per sempre. Li vediamo quei posti, ancora lì, con la stessa luce, la stessa sabbia, lo stesso mare, le stesse architetture, la stessa nebbia e la stessa neve. Tutto immobile. In molte fotografie, la sua visione del mondo si sostituisce al mondo stesso; pensiamo soprattutto alle sue immagini di immagini, cartoline turistiche che prendono il posto della realtà. In questo modo Ghirri è come se portasse alla luce la nostra incapacità di vedere il reale, per questo diviene chiaro il suo obiettivo: che l’attenzione venga rivolta non alle cose, bensì alla loro condizione di visibilità. L’atto del vedere diviene l’origine, l’inizio del tutto. La fotografia in Luigi Ghirri diviene strumento per captare la realtà e il mondo che avviene e rimane, attraverso l’occhio e la macchina fotografica nella mente e nel qui ed ora. D’altronde, quello che l’artista mostra e ferma, solitamente, è quello che la distrazione umana tende a non cogliere, tralasciare e perdere definitivamente.
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Non è un caso che uno dei suoi ultimi progetti prima che ci lasciasse, progetto che non è riuscito a portare a termine, fosse quello di fotografare le antiche case di campagna, dimenticate e abbandonate. Diceva che mirava a fotografare «il respiro della Terra». Paesaggi onirici, fantastici, proveniente da mondi lontani, scenografie per film muti. L’Emilia, nelle foto di Luigi Ghirri, è un’Emilia sognata, mistificata, sospesa e universale, perenne.
Il colore stesso, nelle sue foto, cambia. Nella prima fase ve ne sono di molto colorate, quasi pop; nella seconda fase, quella dei paesaggi, i colori divengono più tenui, rarefatti. Ghirri inizia ad interessarsi ai paesaggi dimenticati, ai “non-luoghi”. Inizia a fotografare non solo i monumenti, la cartolina, i bei paesaggi, ma anche le periferie, il mistero di ciò che vi era oltre la bella città. Accanto alla malinconia delle periferie vi è la magia della campagna. La fotografia si fa parola, diviene linguaggio in tutte le lingue del mondo, è un sentire profondo e radicato alle cose più vere, dove anche e soprattutto paesaggi di campagna possono condurre allo stupore e alla meraviglia. Numerose sono anche le foto dedicate all’architettura, forte è il suo interesse per finestre, porte e saracinesche presenti nei “non luoghi” della provincia.
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Luigi Ghirri sosteneva che bisognava partire dal paesaggio e al paesaggio ritornare. Nelle sue fotografie ritroviamo l’essenza ma anche l’esistenza delle cose, l’esserci in una silenziosa presenza. È il caso degli scatti d’interni, in particolare quelli nell’atelier del pittore Giorgio Morandi, o ancora nello studio milanese dell’architetto Aldo Rossi. Anche se negli scatti non vi sono il pittore e l’architetto, forte è la loro presenza ma, allo stesso tempo, in ogni elemento si vede l’interiorità dello stesso fotografo. Ghirri affermava:
«La fotografia rappresenta sempre meno un processo di tipo conoscitivo che offre delle risposte, ma rimane un linguaggio per porre delle domande sul mondo… Ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi con il mondo esterno, con la convinzione di non trovare mai una soluzione alle domande, ma con l’intenzione di continuare a porne. Perché questa mi sembra già una forma di risposta.»
Quindi, negli scatti di Luigi Ghirri risulta forte la connessione tra esistenza e corporeità. Il corpo è totalmente presente al mondo, lo abita e rivendica la sua partecipazione ad esso. La sua fotografia è intrinsecamente interconnessa con la filosofia, il pensiero. D’altronde, la fotografia, l’arte, è da sempre legata alla filosofia e viceversa. Da sempre i filosofi si sono posti domande su come l’arte, lo sguardo che trattiene le cose, influisse e modificasse l’animo e il pensiero umano.
Presenza, esistenza e corporeità sono centrali nelle foto di Ghirri come lo sono nel pensiero del filosofo Maurice Merleau-Ponty. Sembrano uniti dalla stessa visione dell’arte e della corporeità i due, seppur siano vissuti in momenti diversi e abbiano partecipato alla vita seguendo modalità di pensiero differenti. Merleau-Ponty rappresenta una delle personalità più influenti del panorama filosofico novecentesco. Nasce nel 1908 a Rochefort-sur-Mer, in Francia. Si è occupato di arte, politica, psicologia ma è nella fenomenologia che si afferma con più vigore. Fondamentale per il filosofo è imparare ad osservare la nostra esperienza. Per vedere pienamente il mondo occorre abbandonare la solita accettazione che ne abbiamo, il guardare senza vedere perché, come lui stesso affermava «l’uomo è nel mondo, e solo nel mondo conosce se stesso». Il centro del suo pensiero, dunque, è l’esistenza come essenza dell’essere umano.
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Merleau-Ponty, così come Luigi Ghirri, era interessato all’essere umano e al suo modo di stare al mondo. Centrale in questo è la visione, la percezione. Occorre ritornare con urgenza alla percezione per ritrovare quell’attitudine originaria dello stare al mondo e nel mondo, appunto. La percezione, in quanto interconnessa alla corporeità, testimonia che «il corpo altrui e il mio sono un tutto unico». Merleau-Ponty, nella sua opera Fenomenologia della percezione (1945, acquista), arriva ad affermare che mente e corpo non sono entità distinte (così come sostenuto dalla filosofia cartesiana). Pensiero e percezione, per il filosofo, sono incarnati. Mondo, Corpo e Coscienza abitano un unico sistema.
«Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. Questi capovolgimenti, queste antinomie sono modi diversi di dire che la visione è presa, o si fa, nel mezzo delle cose, là dove un visibile incomincia a vedere, diventa visibile per se stesso e grazie alla visione di tutte le cose, là dove persiste, come l’acqua madre nel cristallo, l’indivisa comunione del senziente e del sentito» [1]
Merleau-Ponty parla di “ambiguità” dell’essere umano che è sia soggetto che oggetto all’interno del processo percettivo. Soggetto e oggetto, in questo processo sono inscindibili, inevitabilmente legati. Il soggetto non osserva più il mondo con distacco e l’oggetto non è più qualcosa d’altro destinato a non essere accolto dall’essere umano. Per Merleau-Ponty, così come nelle immagini di Ghirri, il soggetto e l’oggetto, il vedente e il visto, l’io e il mondo diventano un’unità indissolubile.
La chiave di questa unione è ancora una volta la percezione. Per Merleau-Ponty vi è l’urgenza di ritornare ad essa per cogliere pienamente il mondo. Per il filosofo l’unico strumento a nostra disposizione per cogliere la totalità del Mondo è l’Arte. L’obiettivo di Maurice Merleau-Ponty non è arrivare ad una definizione di bellezza, ma arrivare a penetrare le strutture che vi sono nel concetto di espressività.
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A tal proposito, il filosofo, distingue tra linguaggio parlato e linguaggio parlante. Il primo indica il nostro bagaglio culturale, i segni e le significazioni acquisite, il secondo è quello che interessa maggiormente al filosofo, è il linguaggio prima del pensiero, il momento in cui si sta per creare il senso. È un linguaggio volto all’intenzionalità e alla creazione. Il filo che unisce, probabilmente, Merleau-Ponty e Ghirri, è ravvisabile nell’ultimo scritto del filosofo L’occhio e lo spirito (1960, acquista). Lo storico dell’arte André Chastel aveva chiesto a Merleau-Ponty un contributo per il primo numero di Art de France, il filosofo ne fece un saggio. Questo s’incentrava sull’idea di visione nell’arte, per cui, ancora una volta, il filosofo ritorna all’idea di corpo umano che prende vita nel momento in cui dialoga con il mondo circostante. La meditazione sul corpo e la visione, sugli oggetti che sono o capitano nel mondo e si presentano allo sguardo, è per Merleau-Ponty testimonianza del fatto che l’essere umano è presente allo spazio, partecipa a questo magico mescolarsi di vicino e lontano, presenza su uno sfondo di assenza.
«Quando vedo attraverso lo spessore dell’acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo malgrado l’acqua e i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi. Se non ci fossero queste distorsioni, queste zebrature di sole, se vedessi senza questa carne la geometria del fondo piastrellato, proprio allora cesserei di vederla quale è, dove è, vale a dire più lontano di ogni luogo identico. L’acqua stessa, la potenza della massa acquosa, l’elemento sciropposo e luccicante, non posso dire che sia nello spazio; non è altrove ma non è nella piscina. L’acqua abita la piscina, vi si materializza, ma non vi è contenuta, e se alzo gli occhi verso lo schermo dei cipressi dove gioca il reticolo dei riflessi, non posso negare che l’acqua visiti anch’esso, o almeno vi riverberi la propria essenza attiva e vivente. È questa animazione interna, questo irraggiarsi del visibile, che il pittore cerca sotto i nomi di profondità, spazio, colore» [2]
Si narra che Merleau-Ponty mentre scriveva della piscina e pensava ad essa con tale intensità fosse, in realtà, nel buio della sua stanza. Questo testimonia come quell’immagine fosse stata catturata dall’occhio, dallo sguardo, così pienamente e totalmente che la mente era capace di rievocarla fedelmente.
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Maurice Merleau-Ponty e Luigi Ghirri, un filosofo ed un fotografo. Mondi distanti, lontani nel tempo. Probabilmente è stato un azzardo tentare di unire queste due imponenti figure. L’intento era far comunicare per un breve periodo questi due volti. Cosa si sarebbero detti i due se si fossero trovati a discutere del mondo, dello sguardo e della fotografia? Probabilmente avrebbero parlato a lungo, avrebbero condiviso la loro idea di Arte, di vedente e visto.
Ghirri avrebbe mostrato le sue foto col suo fare goffo e distratto, con gli occhiali sporchi. Merleau-Ponty li avrebbe guardati con attenzione, passando lo sguardo dal fotografo alle foto e dalle foto al fotografo, avrebbe riflettuto con un religioso silenzio mentre Ghirri avrebbe aspettato con la sua timida riservatezza. Merleau-Ponty si sarebbe complimentato con lui e avrebbe deciso di scrivere un saggio sulle sue foto così come aveva fatto con i quadri di Cézanne.
La filosofia è un dialogo continuo e aperto verso il mondo, la fotografia, la pittura, il cinema, la letteratura. Bisogna sempre ricercare questo scambio, questo dialogo, per lasciar fluire il pensiero, continuamente e inesorabilmente.
Elena Lanzilotti
Fonti:
1. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, 1960 p.19
2. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, 1960 p.50
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