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Pensiero solitudine

Pensare soli, o sul pensiero della solitudine

Cosa significa pensare soli? È la solitudine del pensiero la condizione autentica del filosofo?

14 minuti di lettura

Ci sono almeno due luoghi comuni sul rapporto tra pensiero e solitudine.

Il primo dice: si pensa “da soli”, cioè con la propria testa, e ciò è segno di autonomia e maturità. Lasciare la mano dei genitori e con essa la Unmündigkeit di cui parla Immanuel Kant nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, per intraprendere la strada verso l’autenticità, ossia la verità che in fondo ogni essere umano possiede dentro di sé.

Ciononostante, la scienza è un’operazione collettiva, e l’organizzazione scientifica del sapere richiede la presenza di un’Accademia, di università e comunità di ricerca. Chi se ne pone ai margini – sebbene la storia fornisca esempi anche piuttosto illustri – rischia costantemente che il suo pensiero finisca per essere, come si suole dire, un vizio solitario.

Ciascuno riconoscerà un minimo di verità ad entrambe le posizioni, e non mancano del resto i tentativi di conciliarle tra loro. Tuttavia, se si seguisse questa strada, ci si precluderebbe subito la possibilità di riflettere adeguatamente sul nesso pensiero/solitudine, quantomeno per il fatto che si rimarrebbe sul piano di luoghi comuni. Conciliare, appianare, cercare l’ovvio: tutte queste sono operazioni che trattano il problema in questione alla stregua di qualsiasi altro, mentre ciò che lega la solitudine al pensiero parla di qualcosa di radicalmente diverso. Nel pensiero vige cioè una solitudine che non ammette né il ricorso a luoghi comuni né all’universalità del proprio io. E forse vale anche il contrario, cioè che la solitudine, nella sua profondità, pensi.

Ascoltare questa intonazione del rapporto pensiero/solitudine significa altresì prendere sul serio questo problema. Non trattandolo come un qualsiasi altro problema, il rapporto diventa esclusivo, speciale, e in definitiva solitario.

Pensiero solitudine

Giustamente si possono sollevare dubbi in merito a questa modalità di accesso alla questione. Il rapporto tra una macchina e il colore è a sua volta colorato? No di certo. E allora perché ostinarsi a vedere il nesso pensiero/solitudine come qualcosa di solitario a sua volta?

C’è tuttavia una sottile logica nelle questioni veramente filosofiche, grazie alla quale si può rispondere a tale obiezione. Cosa c’entra infatti l’esempio della macchina colorata? Pur essendo cioè corretto, con questo paragone non si revoca già da subito il carattere solitario della questione?

Ma è con un’altra obiezione che viene in chiaro il carattere complesso della questione pensiero/solitudine. Anche riconoscendo infatti la solitudine del pensiero, si dirà: «quindi?». Tutto ciò può cioè essere anche molto affascinante, suggestivo. Ma poi? Che significa che il nesso pensiero/solitudine è circondato da una solitudine? Cosa mai potrà significare che la solitudine “pensa”? La solitudine fa terra bruciata attorno al suo problema, e nulla si può “dire” – cioè “aggiungere”.

Con queste domande si gioca invero il destino della filosofia, la sua sopravvivenza o la sua morte. La questione della solitudine del pensiero può cioè essere liquidata, accolta con scherno, anche risolta: basta per esempio lasciarla a sé, al proprio isolamento. Ciononostante, così facendo, l’attitudine nei confronti di quel domandare che anima la filosofia viene del tutto snaturata. Dov’è finito l’amore per una domanda genuina, che non si lascia acquietare da una comoda risposta?

Scegliere di prendere sul serio la solitudine del pensiero significa quindi assumere su di sé la solitudine che questa comporta e insieme farsi carico del destino della filosofia. Non di rado capita che chi assume tale incarico, già gravato dalla solitudine interna al pensiero, dal «quindi?», venga preso in giro – queste stesse considerazioni si prestano del resto ad oggetto di scherno, in quanto decisamente esagerate: è mai possibile che in tale questione ne vada di qualcosa come il destino della filosofia? La storia della filosofia non è fatta di martiri permalosi. Se, tuttavia, un giorno si prende alla leggera chi si impantana in questioni facilmente aggirabili, il giorno dopo, magari, non gli si concederanno finanziamenti (come si può finanziare una simile “ricerca“?), e un domani lo si ucciderà, accademicamente, conciliandolo con la solitudine tanto ricercata.

Anche morire è dopotutto qualcosa che avviene da soli.

Quindi? La solitudine che attraversa il pensiero ed insieme isola il pensatore mette alla prova la sua serietà, il suo coraggio. È la stessa solitudine che si prova di fronte al silenzio di un uditorio, di fronte ad una pagina bianca, alla costante incomprensione.

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Ciò che per molti è incomprensione, per altri è tuttavia domanda. Certo non la domanda di cui si conosce già la riposta, bensì quella onesta, che resta incagliata alla cosa rendendola questione. In questo senso, la domanda che la solitudine del pensiero solleva è anche un invito alla discussione, al confronto.

Si prenda ad esempio la lettura di un testo filosofico. Soffermandosi sul rigore argomentativo indubbiamente si ricava un certo piacere, nonché un ottimo strumento per l’insegnamento, dato che è attraverso gli argomenti dei filosofi che la filosofia può essere trasmessa come un’impresa coerente e razionale. Ma è a questo che bisogna limitarsi? Limare cioè i punti oscuri, e ottenere così un quadro che, a ben guardare, è solo forzatamente coerente? I conti che si vogliono far tornare sono spesso i propri, piuttosto che quelli delle questioni presenti nei testi. Lì vi alberga talvolta la disperazione, il conto che non torna – la solitudine, insomma, di chi pensa. È una questione di talento far quadrare il senso di un testo filosofico; è tuttavia una questione filosofica farne parlare l’inquietudine.

È però proprio così che il testo si apre al dialogo, e che la filosofia si cura della propria eredità: non nel tramandare una gloriosa storia dei suoi ragionamenti, quanto, piuttosto, nel rigettare il lettore nell’abisso del pensatore, nel fargli provare lo stesso senso di smarrimento. Oggi come allora, le stesse questioni incalzano come mai un ragionamento che potrà essere incalzante. Nella solitudine del domandare si staglia allora una speciale forma di comunanza, che è in ultima istanza la volontà di mettersi all’ascolto di chi ha sofferto nella solitudine del pensiero, partecipandone a propria volta.

Sembra tuttavia che, prima di affidarsi alla pagina, e quindi alla possibilità di una eredità, il pensatore debba in qualche modo essere venuto a capo dell’abisso in cui è precipitato. I testi filosofici non sono cioè un cimitero della ragione: la solitudine viene qua e là vinta. L’idea stessa della pubblicazione va in questa direzione.

Si tratta di un tema per niente banale, legato alla domanda sull’inizio e sulla fine di un libro: quando un testo può dirsi completo? Quando, cioè, il deserto della solitudine può dirsi attraversato?

I Weltalter di Friedrich Schelling sono un caso emblematico. Nel tentativo di regredire all’inizio di tutto, non riescono ad uscirne, cioè a progredire, e di questo grandioso progetto possediamo solo versioni del primo libro, il libro sul passato, e pochi frammenti sul suo prosieguo. Ciononostante, il silenzio viene a suo modo rotto, perché appunto un testo c’è – anzi, ben tre! Qui allora la solitudine non viene rimossa, ma si scava in essa, e le circonvoluzioni dei Weltalter hanno infine un preciso significato: è forse proprio nell’interrompere il progetto di partenza che risiede il senso autentico dell’inizio ricercato.

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Riflettere su queste cose spinge allora a riconsiderare l’immagine della storia della filosofia. Volendo accogliere l’idea, piuttosto diffusa (ancor più nei fatti che nella teoria), di una divisione tra “autori maggiori” e “autori minori”, si tratta di pensarla adeguatamente al tema della solitudine del pensiero. Maggiore e minore sono anzitutto in relazione tra loro, quindi non si tratta di tralasciare il minore. Soprattutto, “maggiore” qui significa che si è saputo distinguersi, che cioè si ha sopportato il peso della divergenza (altro nome per solitudine), che si ha osato di più. Anche l’autore che ha avuto un grande seguito può essere riconosciuto come maggiore, ma questo è un giudizio pronunciato da chi valuta il maggiore con il metro del minore: così facendo, si perde di vista la solitudine che in realtà circonda il maggiore. Ciò che svetta è smisurato, anzi ha un’altra misura: celeste, in quanto sa raggiungere una chiarezza al quale non è possibile “aggiungere” altro; abissale, in quanto sprofonda nelle proprie involuzioni. In entrambi i casi si tratta di discontinuità rispetto alla pianura, che attraversa sì questa catena montuosa, ma dalla cui vicinanza (tutto si raggiunge in pianura) si distingue quella, autentica, che regna tra le singole vette solitarie. Sa esserci comunanza anche nella solitudine.

Riconoscere la solitudine del pensiero spinge allora ad una più attenta riflessione anche sul senso della storia della filosofia.

Ma c’è dell’altro. La solitudine, se è tale, non si lascia superare, non è cioè il silenzio che precede ogni pensiero – condizione trascendentale e nulla di più. Venirne a capo può solo significare svettare, (oppure) precipitare. In un passo di Besinnung, Martin Heidegger scrive che l’essere è appropriato dal nulla, rispetto al quale può montare la propria unicità. Circondato dal nulla, anche l’essere è solo, e così raggiunge la propria misura, è commisurato. Dalla prospettiva della solitudine, il rapporto essere/nulla assume allora un nuovo senso: non si tratta della vittoria di uno sull’altro, né del definirsi dell’uno come negazione dell’altro. Nella propria solitudine, l’essere non è niente di comune (a più enti), ma svetta e precipita, tracciando direzioni ancora inesplorate. Torna insomma ad essere domanda.

Articolo di Marco Cavazza

Per i credits dell’immagine di copertina, cfr. Carmine Bellucci, https://www.instagram.com/carmine_bellucci/?hl=it

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