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“L’Italia al diavolo”. Popper, Severino e la televisione

Nel 2002 veniva ripubblicato un saggio di Karl Popper, «Cattiva maestra televisione». A distanza di vent'anni, il dibattito è ancora aperto: qual è il rapporto tra tv e democrazia?

12 minuti di lettura

Nel 2002 veniva ripubblicato un noto saggio di Karl Popper, Cattiva maestra televisione, da parte di Marsilio Editori. Si tratta di un saggio anomalo, sia per la stesura (poiché fu dettato da Karl Popper a pochi mesi dalla sua morte, nel settembre 1994), sia rispetto al canone tematico, e al rigore argomentativo, che non è esattamente quello prototipicamente analitico popperiano. Con grande stupore dei recensori, questo testo sembrava alludere al ruolo imprescindibile dello Stato – da un punto di vista liberale, naturalmente -; potremmo dire quasi ponendosi sul fronte degli «apocalittici», e non degli «integrati», rispetto agli schieramenti annunciati da Umberto Eco

Ma, a prescindere dalle prese di partito, il sospetto che animava Cattiva maestra televisione era precisamente questo: c’è il rischio che la televisione possa diffondere tra i bambini la violenza? E c’è la possibilità – il compito etico – di regolamentarla?

Al di là della risposta che veniva argomentata in quella decina di pagine (sì, ci vorrebbe perfino una patente previo esame per far la televisione – alla faccia dei comunisti), è curioso rileggere oggi le parole di Giancarlo Bosetti nell’introduzione al testo. Scrive Bosetti: «I tentativi di non vedere il nesso causale tra il peso debordante della televisione in una società che quasi non legge giornali e il successo politico di un produttore televisivo sono tanto meticolosi quanto inutili, o comici».[1]

Curioso, dicevamo, ma con tinte fosche. Più volte Bosetti si interrompe, retrocede, e deve ripetere questa avvertenza: Karl Popper non aveva in mente il caso italiano quando stava dettando la sua ultima pubblicazione. Davvero – sembra quasi dire Bosetti –, giuro che a leggerlo sembra così, l’analogia salta subito agli occhi, sembra che Popper stia parlando in punta di morte del caso Mediaset-Berlusconi, ma vi assicuro che a rigor di testo non è così.

Ed è vero che Karl Popper parlava di bambini, meccanismi cognitivi e di mimesi infantile, sulla scorta di un recente articolo di John Condry[2], ed era peraltro interessato ad altre cose rispetto alla denuncia dei capitali che controllano l’informazione; ma effettivamente il nesso era plausibile, detto in maniera eufemistica. Siamo nel 2002, ricordiamo. Erano passati dodici anni dalla legge Mammì, dieci da quando era stato concesso il nulla osta al Tg5, diretto da Enrico Mentana (sì, Mentana); otto dalla vittoria di Berlusconi alle elezioni, e il resto si sa. Ormai da tempo si parlava di conflitto di interessi, e le inquietudini venivano da sé. Non stupisce che in tal senso fossero state interpretate le parole di Popper, che così chiosavano: « Ora, è accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale […]. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si mette fine».[3]

Spesso si fa notare che l’atteggiamento di Karl Popper riguardo ai mass media non fosse molto diverso da quello dei liberali classici, quando questi si erano imbattuti nel proliferare dei grandi monopoli. Insomma, andavano denunciati perché limitavano il potere contrattuale individuale, mettevano in discussione il presupposto della libera concorrenza del mercato – ma il meccanismo in sé del mercato non si metteva in discussione.

Allo stesso modo, senza dubbio Karl Popper riconosce come l’audience, la necessità di tenere alto il numero degli spettatori, finisca per «produrre materiale scadente, sensazionalistico, e non educativo» (detto in pieno stile british, per chi è cresciuto tra Grande Fratello e le veline e altre cose immonde). Però il problema non ha una dimensione strutturale. Karl Popper è essenzialmente interessato alla salvaguardia dell’educazione ai fini della democrazia, non ad altro. Ed è abbastanza esemplare il momento in cui racconta di una «conversazione assurda» che aveva avuto con un capo televisivo tedesco, che lo aveva alquanto sbalordito per contrasto al suo modo filosofico di vedere le cose – un modo forse ingenuo, possiamo dire, o quantomeno non sporcato dalla rassegnazione di chi, in Italia, le cose assurde le viveva.

Diceva per esempio [il capo]: «Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole», come se si potesse sapere quello che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni.

Quello che possiamo ricavare da qui sono soltanto indicazioni circa le preferenze tra le produzioni offerte. Guardando quei numeri noi non possiamo sapere che cosa dovremmo o potremmo offrire.[4]

E aggiunge Karl Popper, quasi con malcelato stupore rispetto al corso del mondo:

Il fatto è che egli [il capo] crede veramente che la scelta sia possibile soltanto nell’ambito dell’offerta così com’è […]. La discussione che ho avuto con lui è stata davvero incredibile […].

Ora, non c’è nulla nella democrazia che giustifichi le tesi di quel capo della tv, secondo il quale il fatto di offrire trasmissioni a livelli sempre peggiori dal punto di vista educativo corrispondeva ai principi della democrazia «perché la gente lo vuole». Ma in questo modo saremo costretti ad andare tutti al diavolo![5]

Il fatto è che al diavolo ci stavamo andando eccome, e in Italia il democratismo televisivo non faceva stupore. Con parole più imbellettate, dal presagio intuito eravamo già dentro al piano fattuale e descrittivo. Il piano del così-è, così funziona il mondo.

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Facciamo un salto al 1994, e prendiamo a proposito l’editoriale al Corriere della Sera di Ernesto Galli della Loggia [n. 29 maggio 1994]. Berlusconi ha vinto da un mese, e il leitmotiv degli opinionisti è ben presto diventato quello delle colpe della sinistra.

Ora, si scrive che la sinistra manca della «volontà di sentirsi davvero dalla parte del senso comune, dell’uomo della strada» – fin qui nulla di nuovo. Ma qual è il punto?

Che è inevitabile che si perdano le elezioni, quando si disprezzano i valori dell’uomo comune (citiamo: carriera, reddito, vacanze, televisione, pubblicità, intrattenimento), e si predicano solamente astratte ricette di buoni sentimenti. Anzi, dovrebbe badar bene a non criminalizzare – sull’onda scandalistica dei noti rapporti tra Berlusconi e la televisione – queste sensibilità reali. Il rischio, si scrive, è che la sinistra inceda a forme di aristocraticismo tali da trasformarla in un vero e proprio partito conservatore.

Tra gli altri, ci aveva pensato già Emanuele Severino a fare qualche pelo all’editoriale, con una charme argomentativa tutta morigerata. Il problema è che, poste le premesse di Galli della Loggia, se è vero che solo chi si abbassa ai gusti dei più (posto sia possibile conoscerli in una maniera più veritiera di quella plebiscitario-sondaggistica – ricordiamo Popper), se insomma solo costoro possono vincere le prossime elezioni, allora tanto varrebbe «sembrare degli incolti, o esserlo». Se vincere fosse la cosa più importante del mondo, allora certamente bisognerebbe “uniformarsi all’ignoranza dei più”, e mettere da parte l’alta cultura. Qui arriva il condizionale.

Ma se salire al governo non fosse la cosa più importante del mondo, giacché si può pensare che anche per un movimento politico sia meglio la gallina domani che l’uomo oggi, allora ci potrebbe essere chi si rassegna a perdere prossime elezioni, purché il popolo non perda i legami con l’alta cultura.[6]

E che cos’è l’alta cultura? Significa “mettere in questione”.

Solo a questa condizione c’è cultura e la società tenta nuove vie. Anche quando la cultura mostra che […] l’uomo meglio riuscito è quello della strada, anche in questo caso senso comune e uomo della strada sono stati messi in questione, perché gli argomenti che si sono addotti […] non li si è trovati in istrada.

Se tutto questo non è vero, chiudiamo pure le scuole, dalle elementari alle università (e magari incominciando dalle scuole pubbliche), così anche le sinistre, chissà, potranno vincere le elezioni, e in un popolo di cretini la cretineria di sinistra si alternerà giudiziosamente a quella di destra.[7]

Riprendiamo l’editoriale di Galli della Loggia del 1994, il suo colpo di grazia al “moralismo perbenista” di quanti non fanno i conti con la realtà mediatica.

L’immagine complessiva che […] la sinistra italiana dà di se stessa è quella di una posizione politica fortemente identificata per un verso con il conflitto sociale, e per l’altro con l’astrattezza utopistica.

Conflitto e speranza. Ma sì, chissà che oggi non rimangano d’augurio.

Linda Dalmonte

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[1] Dal villaggio all’asilo d’infanzia (globale), di Giancarlo Bosetti, p.27, in Cattiva maestra televisione, Venezia: Marsilio, 2002.

[2] “Ladra di tempo, serva infedele” di John Condry.

[3] Cattiva maestra televisione, op. cit., p.80

[4] Ivi, p. 72.

[5] Ibidem.

[6] E. Severino, Il destino della tecnica, cap. “La sinistra e il piano inclinato”, Milano: Rizzoli, 1998.

[7] Ibidem.

Redazione

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