di Brando Benifei.
Quelle passate sono state settimane molto importanti per la Grecia e per l’Europa: le trattative serrate tra governo Tsipras e creditori, il referendum, la difficile costruzione di una maggioranza nel parlamento ellenico alla ricerca dell’accordo – trovato dopo un Consiglio Europeo durato 17 ore – hanno sottoposto a una fortissima tensione l’Unione Europea, che ha mostrato ai suoi cittadini e al mondo tutte le sue fragilità.
Rispetto all’eventualità di un esito che valuto disastroso quale la fuoriuscita della Grecia dall’Eurozona, l’intesa raggiunta rappresenta sicuramente un risultato prezioso, un punto fermo per il quale si sono spesi – tra gli altri -il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il presidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici, Gianni Pittella. Non ci si può tuttavia nascondere come tanto i contenuti dell’accordo quanto le modalità che hanno condotto ad esso sollevino gravi preoccupazioni per il futuro dell’Europa.
Alexis Tsipras ha fatto gravi errori nella trattativa: la stessa decisione di indire il referendum non ha portato a risultati concreti, ha anzi condotto a un accordo che per certi aspetti è peggiore di quello per rifiutare il quale la consultazione popolare era stata indetta. Ha inoltre sbagliato a presentare il problema principalmente come un problema greco. Tuttavia la questione da lui posta è centrale: il fallimento delle politiche di austerità applicate non solo in Grecia, ma in tutta Europa, è ormai certificato sia da autorevoli economisti sia dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Da questo punto di vista desta stupore e preoccupazione la pervicacia con cui il governo tedesco e i suoi alleati europei continuano a insistere nell’imporre il proseguimento su una strada che si è rivelata sbagliata e dannosa.
D’altra parte, se i conservatori europei proseguono con determinazione e tenacia su questa linea, troppo debole è stato invece lo sforzo dei socialisti europei nel tentare di affermare una linea alternativa. Agli sforzi lodevoli del presidente Pittella non è corrisposto un impegno compatto da parte di tutte le forze progressiste nel cercare con pari determinazione un accordo. Certo, l’ultima fase della trattativa ha visto comparire alcuni segnali positivi: il tentativo di asse Francia-Italia contro una linea di austerità a senso unico è un dato importante qualora dovesse trasformarsi in una convergenza politica più duratura, come sembrano dirci alcune recenti prese di posizione di François Hollande e Matteo Renzi. Questi elementi positivi hanno però convissuto con altri più scoraggianti, come ad esempio le dure posizioni espresse anche da alcuni governi guidati da esponenti socialisti. Sarebbe ora necessaria una riflessione profonda su quale sia l’idea comune di Europa che vogliamo mettere al centro della nostra azione politica: è un’Europa che superi la rigidità del vincolo di bilancio per andare verso un’Unione che metta al centro delle sue priorità politiche gli investimenti, lo sviluppo dell’occupazione e i diritti dei lavoratori? È un’Europa che contrasti i populismi favorendo una reale partecipazione democratica, rafforzando l’Europarlamento e costruendo veri partiti europei? O viceversa, dobbiamo prendere atto che l’idea di Europa che abbiamo ricalca, con poche marginali correzioni, quella dei conservatori?
Questo dibattito è oggi quanto mai urgente perché, in un momento in cui l’uscita di un paese dalla moneta unica – e forse addirittura dall’Unione – arriva a essere apertamente ventilato, o si ha un’idea concreta e davvero alternativa di come dev’essere il futuro dell’Europa, oppure ci si espone a rischi gravissimi di disgregazione.
Un’idea dell’evoluzione dell’Unione deve però misurarsi con il dato di realtà e anche prendere atto di alcuni limiti del processo di integrazione per come si è dispiegato finora. Credo, ad esempio, che sia necessario fare una certa autocritica sulle modalità con le quali è avvenuto l’allargamento ad Est. Si è trattato di un passo necessario e importantissimo, ma compiuto probabilmente troppo presto, prima che le istituzioni europee si fossero sufficientemente consolidate. L’ingresso di nuovi paesi, con una cultura e con priorità politiche spesso diverse (dovute anche alla loro particolare storia che, per reazione al passato sovietico, li ha portati spesso ad abbracciare posizioni marcatamente liberiste) rispetto al nucleo dei membri precedenti, ha reso molto difficile procedere ulteriormente nel cammino dell’integrazione e cambiare le politiche europee in un senso progressista e attento alla questione sociale. Questa è una delle ragioni per cui ritengo che, in vista di un’ulteriore integrazione, non si debba più escludere l’ipotesi, avanzata di recente anche da molti autorevoli esponenti di governi europei, di un’Unione a due velocità. Non si tratterebbe del resto di una strategia disgregatrice, visto che il sistema degli opt-out ha già condotto a un modello differenziale di integrazione che rischia di dar vita ad un’Europa à la carte. Di fronte a questa realtà la decisione di proseguire nell’integrazione a partire da un nucleo di paesi maggiormente determinati e omogenei potrebbe essere l’unica via per una ripresa effettiva del processo di unificazione e per realizzare politiche di sviluppo e crescita, sempre più necessarie per garantire un futuro agli europei e in particolare alle giovani generazioni.
L’avanzamento istituzionale deve essere naturalmente accompagnato dalla costruzione di uno spazio democratico europeo. In questo senso, paradossalmente, le recenti evoluzioni della crisi e il caso greco stanno portando conseguenze positive: per settimane si è discusso in tutta Europa degli stessi problemi e i protagonisti della politica europea sono diventati familiari in misura crescente alle diverse opinioni pubbliche nazionali. Certo, questo avviene in un contesto in cui crescono anche le tensioni tra popoli, riemergono i nazionalismi e quindi questo successo è quantomeno ambiguo. Sicuramente c’è poi ancora molto da fare sul campo della costruzione dei partiti europei: il recente congresso del PSE si è purtroppo svolto in sordina e il dibattito che avviene al suo interno è spesso rigidamente separato da quello dei partiti nazionali. Il processo di mobilitazione che si era attivato in corrispondenza delle ultime elezioni europee, con la campagna per i candidati a presidente della Commissione Europea (i cosiddetti Spitzenkandidaten) è stato significativo e non va lasciato cadere: le reti create in quell’occasione andrebbero valorizzate e usate come strumenti per ampliare la conoscenza e il dibattito sulle questioni europee, che rimangono tuttora, al di là di momenti di grande attenzione mediatica come quello attuale, patrimonio di ristrette minoranze.
Non vi è democrazia senza informazione e conoscenza da parte dei cittadini e, se questo è oggi un problema a livello nazionale, lo è a maggior ragione a livello europeo. Sforzarsi di far conoscere la politica europea non è però solo un dovere civico. Non lasciare ai populisti il monopolio della mobilitazione popolare, creare un consenso intorno al progetto europeo è anche una priorità vitale per chi crede che il proseguimento dell’integrazione sia ancora un orizzonte da perseguire.
Brando Benifei è l’eurodeputato più giovane del gruppo dei socialisti e democratici; arriva a questo traguardo dopo essere stato eletto nella circoscrizione Nord-Ovest con oltre 39mila preferenze alle elezioni europee del 2014. Alle spalle ha un’importante esperienza nella militanza e nella vita di partito, intrecciando l’impegno a livello internazionale con quello a livello locale, portato avanti parallelamente ad un percorso di studi e lavoro.