L’Italia, da qualche giorno, non è più solo nel mezzo di una pandemia, ma anche nel mezzo di una crisi politica. L’ex premier Matteo Renzi ha reso reali le sue minacce e ha aperto la crisi di Governo, ritirando dall’esecutivo la componente di Italia Viva. Ma come si è arrivati a ciò?
La cronistoria della crisi di Governo
12 gennaio. Notte. Nel consiglio dei ministri si deve dare il via libera al Recovery Plan, il “fondo di recupero” più volte richiesto dall’Italia con l’obiettivo di arginare l’impatto devastante del Coronavirus. Gli occhi sono puntati sulle ministre di Renzi, Teresa Bellanova (agricoltura) e Elena Bonetti (politiche familiari). Un loro voto contrario o le loro dimissioni aprirebbero formalmente la crisi di Governo. Il 28 dicembre Renzi aveva annunciato il suo piano (il “Ciao”) per la gestione dei fondi, minacciando il ritiro delle ministre. A tarda notte arriva l’annuncio: le due ministre si sono astenute. Lo strappo si fa sempre più definitivo e la crisi più vicina.
13 gennaio. Nella mattinata il premier Giuseppe Conte apre a Renzi proponendo un patto di fine legislatura. Anche Mattarella si fa sentire, convocando Conte al Quirinale, incitando a risolvere al meglio le tensioni e raggiungere la stabilità politica. A questo punto tutti aspettano la decisione di Renzi, annunciata in conferenza stampa nel pomeriggio. Matteo Renzi è lapidario e apre la crisi di Governo. Le ministre si dimettono, “il re è nudo”, dice lui. Non ammette di volere la testa di Conte, ma dice che “non c’è un solo nome per Palazzo Chigi”. Di fronte ai cronisti sbigottiti inizia a dire che “la democrazia non è un reality” e che il Governo promuove l’immobilismo politico. Sembra convinto che, in un nuovo governo, Conte o no, Italia Viva sia fondamentale. Nella serata Conte accetta le dimissioni e afferma che Italia Viva ha preso la “grave responsabilità” della crisi.
14 gennaio. Zingaretti e Di Maio usano la linea dura. Con Italia Viva non si tratta, è “inaffidabile”. Conte spinge per portare la questione in Parlamento, Renzi trema. C’è chi parla di un accordo con Mastella che salverebbe in extremis il premier. O Renzi o Conte: da Montecitorio uno dei due uscirà sconfitto. Salvini e Meloni spingono per le elezioni (che assicurerebbero un Governo tutto di centrodestra e l’estromissione definitiva di Renzi dal Parlamento). Berlusconi viene ricoverato a Monaco e l’udienza per il Ruby ter è rinviata all’8 aprile. Nel pomeriggio Conte sale al Quirinale per assumere ad interim le funzioni delle due ministre e annunciare la parlamentarizzazione della crisi. La faccenda si risolverà alle Camere nel prossimi giorni.
Ho fatto una crisi di Governo (ma era solo per litigare)
La scelta di ritirare le ministre Bonetti e Bellanova e il sottosegretario Scalfarotto potrebbe essere visto come l’ennesimo suicidio politico di Matteo Renzi, eppure i diretti interessati non sembrano curarsi del pericolo che corre un partito dato al 2% accendendo i motori di una crisi di Governo.
Oltre alla brutta immagine dell’uomo solo al comando che annuncia le altrui dimissioni nel quasi totale silenzio delle persone interessate, è sorprendente lo sforzo retorico che ha accompagnato la conferenza stampa che, salvo sorprese, mette un punto all’esperienza di governo del Conte bis. Mandiamo tutto a gambe all’aria, ma siamo pronti ad appoggiare un governo con la stessa maggioranza. Non ci va bene nulla di questo Governo e di chi lo presiede, ma non abbiamo pregiudiziali sulla figura di Conte. Ritiriamo le nostre Ministre, ma la crisi non l’ha provocata Italia Viva.
In questo scenario paradossale, neanche le elezioni sono viste come una soluzione. Dopo aver affermato di essere pronto a passare all’opposizione per poi “battere cassa”, Matteo Renzi sembra allontanare le ipotesi di un voto anticipato rimandando le elezioni al 2023 o, quantomeno, ad un momento successivo all’elezione del Capo dello Stato.
La domanda sorge quindi spontanea: Ma quindi era solo per litigare?
Il problema principale di questa crisi di Governo aperta da Renzi è il timing. Aprire una crisi di Governo in piena pandemia, con una curva di contagi che fatica ad abbassarsi e più di 500 vittime al giorno, è un atto di incoscienza politica paragonabile solo alla tendenza populista dell’opposizione di invocare compulsivamente le urne. Urlare, criticare ed elencare quello che si sarebbe potuto fare (magari sbandierando dati ed esempi senza alcuna base economica) è sempre meglio che avere un progetto concreto per il Paese e risolvere problemi reali.
Una crisi di Governo porta all’instabilità che non si addice a una democrazia matura che con grandi sforzi è riuscita a recuperare credibilità in ambito europeo.
Per rispondere in tempi brevi ai bisogni di cittadini e imprese messi a dura prova dalla pandemia, bisogna dare risposte serie e concrete garantendo al Paese le risorse messe in campo dal Next Generation EU e dal bilancio pluriennale 2021-2027, ottenute grazie all’importante lavoro del Governo negli ultimi mesi. Mostrare serietà significa anche rispettare le scadenze per la presentazione del Piano di Ripresa e Resilienza che garantirebbe al nostro paese un anticipo di 20 miliardi nel mese di luglio. Per raggiungere tale obiettivo, è necessario procedere con i pareri delle Commissioni parlamentari competenti e con il voto di entrambe le Camere entro metà febbraio, inviando la documentazione a Bruxelles entro il 30 aprile.
Adesso la crisi verrà parlamentarizzata e il Presidente del Consiglio, dopo aver assunto l’interim del Ministero dell’agricoltura e le deleghe della Ministra per la famiglia, si presenterà alla Camera e al Senato per relazionare sulla situazione politica attuale e sulla tenuta del Governo.
La memoria dei malpensanti va a qualche tempo fa, quando il Governo era un altro, il Matteo era un altro, ma le intenzioni sembrano proprio le stesse.
Il prequel della crisi di Governo: il progetto CIAO di Renzi, tra slides e inglesismi
28 dicembre. Roma. Matteo Renzi presenta in conferenza stampa la proposta del suo partito, Italia Viva, per l’investimento dei soldi del Recovery Fund. Sembra essere tornato ai tempi d’oro. Si siede, smargiasso, fa partire le slide, chiama i giornalisti per nome, ha pronti i suoi slogan e gli inglesismi mal pronunciati (Next Generation, Drafting, Cyber Security, ma l’elenco è lungo). Apre la conferenza stampa elogiando il Governo per la sua apertura e ascolto sulle proposte. Poi però Renzi minaccia di ritirare le sue ministre e aprire la crisi di Governo se non lo ascoltano, e infine chiude in grande stile, dicendo che i parlamentari non sono pedine. Se Oscar Wilde aveva ragione a dire che la coerenza è il rifugio di quelli senza immaginazione, allora Renzi di immaginazione ne ha moltissima.
Proprio in quella occasione, il leader di IV presenta il progetto CIAO (acronimo di cultura, infrastrutture – una scusa per tornare sul TAV e provocare i 5s, ndr – ambiente e opportunità). Chiede poi lo ius culturae, che non è riuscito ad approvare in 3 anni di governo e che Maria Elena Boschi definiva una “non priorità”, ma niente paura: si riferisce solo agli studenti universitari stranieri che si laureano in Italia (lui la chiama “immigrazione di qualità”. Adesso bisogna capire com’è l’“altra” immigrazione). Ripete ossessivamente una frase, come se si trattasse di un aut aut, «cultura, non riforma della prescrizione, cultura!». Dimentica forse cosa diceva sulla prescrizione nel 2014. Poi, stimola investimenti sui giovani e beni culturali altrimenti, dice, siamo dei vigliacchi. Un giorno spiegherà anche perché, stando ad Eurostat, la spesa in istruzione è passata sotto di lui dal 3.6% del PIL nel 2014 al 3.4% nel 2016 (PIL che, per inciso, era più basso nel 2016). E, per concludere, riesce a tirare fuori il sancta sanctorum delle promesse politiche: IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA.
Per tutto il tempo Renzi, da buon Pirgopolinice quale è, sciorina numeri e dati che si è imparato bene a memoria prima. Il problema è che non chiarisce mai dove, come e attraverso quali organismi, con quali controlli, con quali finalità e per quali progetti mettere i miliardi che nomina (è tutto un millantare “10 miliardi qua, 20 là…”). Insomma, Renzi vuole comandare, si è capito, e se non glielo consentono sventola la sua arma (l’unica), il ritiro delle ministre e la crisi di Governo.
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Crisi di Governo che rimane però, per ora, solo annunciata da Renzi: le elezioni non gli convengono e, a meno che non ci sia una nuova maggioranza disposta a sobbarcarselo (è improbabile un Governo Draghi, che invece punta forse al Quirinale), gli conviene che Conte regga. Questa, non per nulla, è la quarta (tentata) “crisi di Governo”: febbraio sulla prescrizione, maggio sulla sfiducia a Bonafede e ottobre sulle chiusure. Due passi avanti e uno indietro, avanzando centimetro dopo centimetro.
Matteo Renzi, l’uomo del fare?
Dal punto di vista comunicativo, invece, tutto pur di apparire. E meglio se appare come l’uomo del fare in un Governo di ottusi. L’uomo in giacchino di pelle, cool, che ha sempre una soluzione in tasca. IL leader. Questa è l’immagine che vuole proporre: un outsider, un CEO, uno che maneggia i numeri ed è a contatto con il Paese reale. Non è un politicante, lui, non gli interessano le cose “novecentesche” (così le chiama) come i partiti o, figuriamoci, lo statuto dei lavoratori. Non ha un programma politico ma, tutt’al più, una vision, una mission, non fa congressi, ma meeting e leopolde.
Il populista mascherato
Le righe a seguire sono un’opinione di chi scrive, esasperato dai continui trucchi dell’ex enfant prodige del centrosinistra italiano, forse la più grande e pericolosa spina nel fianco dell’attuale Governo. Si potrebbe dire infatti che Renzi pratichi una forma di populismo semplicistico, perbenista, retorico, mascherato dietro al suo dirsi di “sinistra” (che manco bisogna commentarlo) e a proposte piacione, nazionalpopolari e qualunquiste (i “ggiovani e la cultura”, ma sempre in termini vaghi. Tanto, è sufficiente dire che ci sarà una pioggia di miliardi).
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Questo, il protagonismo, la spacconeria, la politica dell’annuncio e l’offerta di un modello d’uomo più che di politica, lo rendono l’eredità scomoda di Berlusconi e di un populismo meno becero e perciò più insidioso. Un’eredità di cui, soprattutto in un momento come questo, dovremmo liberarci una volta per tutte.
La storia in Italia sembra presentarsi contemporaneamente come tragedia e come farsa. È farsa la sua egomania e il suo millantare numeri come un bimbo che ha imparato le tabelline, ma è tragedia il fatto che quest’uomo ha in pugno il Governo e la gestione del futuro del Paese.
Andrea Potossi e Giuseppe Vito Ales
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