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Un quadro di Carelli Consalvo che, come in una cartolina gradevole, ritrae una classica veduta di Napoli e del Vesuvio con una sapiente scelta dei colori. Tecnica: olio su tela. Firma in basso a destra

Ritorno a Giambattista Vico: natura, mito e poesia

11 minuti di lettura

Ci sono filosofi che segnano le epoche, pensieri che si affermano con forza riuscendo a inserirsi nella cultura e a plasmare le menti dei secoli a venire, scolpendo i loro nomi nella (non troppo malleabile) pietra dell’immaginario collettivo. Ce ne sono altri, poi, che a discapito della loro grandezza non arrivano mai a imporsi nell’Olimpo degli imprescindibili della chiacchiera storico-filosofica. È senz’altro quest’ultimo il caso di Giambattista Vico, già “snobbato” dai suoi contemporanei a causa dell’eccessiva matrice cristiana del suo pensiero, difficilmente conciliabile con l’entusiasmo ateo-positivista dell’Età dei Lumi, poi riconsiderato nell’Ottocento e di nuovo ripiombato nel dimenticatoio del mainstream filosofico da diversi decenni.

Vico nostro contemporaneo

Tuttavia, chi voglia recuperare le pagine di questo gigante della filosofia nostrana rimarrà piacevolmente sorpreso dall’atemporalità della sua geniale opera e dalla straripante potenza dei suoi semi teorici, che hanno forse come unica colpa quella di non essere mai riusciti a germogliare pienamente.

Quella di Vico è una «ricerca ostinata»[1], come lui stesso la definisce nelle prime pagine della Scienza Nuova (principale opera del filosofo napoletano) una ricerca che mira dritta al nucleo della natura umana, con l’esplicita ambizione di scavare nelle profondità di essa fino a disvelarne l’essenza ultima, fino a comprendere, insomma, ciò che realmente siamo.

Per fare questo il «rivoluzionario», come lo ha definito Benedetto Croce[2], cerca di risalire all’origine, al vero momento in cui l’uomo ha cominciato a costituirsi come tale.

Vico

Il mito del fulmine

Da questa esigenza nasce il celebre mito del fulmine, pilastro imprescindibile dell’intera «scienza» vichiana, a partire dal quale il filosofo erige il suo imponente edificio teorico:

dugento anni dopo il diluvio […] il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […]. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, […] spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo.[3]

Come si nota, il racconto si propone come esegesi biblica, attentamente e a lungo sviluppata da Vico conciliando (non senza qualche difficoltà) Antico Testamento e nuove scoperte storico-antropologiche di inizio ‘700. Ciò che ne risulta, tuttavia, altro non è che una mera bipartizione cronologica: una storia essenzialmente biblica prima del diluvio universale, e una storia naturale che comincia dal punto zero dell’umanità quasi estinta dalla punizione divina per proseguire in maniera non poi così dissimile a quella che un qualsiasi manuale di storia affermerebbe oggi.

Potremmo quindi dire, e non sarebbe poi un’eccessiva forzatura, che la narrazione vichiana muove i passi da un momento in cui non è ancora riscontrabile una sostanziale differenza tra l’uomo e un qualsiasi altro animale: dalla Preistoria, insomma, nel suo senso più vago. È in questo «stato bestiale»[4] che assistiamo alla violenta apparizione del primo vero evento della storia umana: la comparsa del fulmine.

Ciò che Vico vuole trasmettere con questa immagine, potente pur nella sua ordinarietà, è l’idea di un avvenimento improvviso, inaspettato, ignoto e misterioso per i primi uomini, stupefacente ma spaventoso nella sua prodigiosa manifestazione.

E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, […] si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette “maggiori”, che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse dir loro qualche cosa. [5]

Queste sono forse le righe più dense di contenuto dell’intera opera, quelle in cui l’autore ci consegna la chiave di lettura che apre lo scrigno delle risposte alle nostre domande più pressanti.

L’essenza del fulmine va infatti ben al di là del semplice fenomeno che esso costituisce, ciò che essa realmente rappresenta è la prima esperienza umana del dubbio; nel momento in cui i «bestioni» (così Vico chiama i primi uomini) si trovano a far fronte all’ignoto, all’inspiegabile, al totalmente sconosciuto, là viene alla luce la prima risposta e, con essa, l’essere umano.

Vico

La nascita delle religioni

Come si intuisce, troviamo in quest’ottica una sorta di necessità che quel dubbio primordiale si risolva in una risposta di tipo mitico-narrativo, dato che «la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura». Vico spiega così la nascita delle prime religioni, in cui fenomeni naturali di cui si ignoravano le cause venivano solitamente attribuiti all’azione di una o più divinità, che erano perlopiù mosse da ragioni e caratteristiche prettamente umane.

È inoltre da sottolineare come non ci sia, in questo pensiero, spazio per un uomo pre-linguistico o pre-religioso (si parla, appunto, di bestioni); l’umanità non forma il linguaggio, ma si forma attraverso di esso, in un processo simbiotico in cui ognuno dei due elementi finisce per costituire l’altro in un rapporto di imprescindibile fondazione reciproca.

Gli uomini sono poeti

Gli uomini sono perciò «sublimi poeti» per natura [6], nel senso etimologico del termine poiesis, poiché creano il mondo tramite la loro narrazione linguistica, come Adamo che nel paradiso terrestre nomina le cose che lo circondano. Sarebbe ingenuo e forse pretenzioso, da parte nostra, immaginare le antiche mitologie come racconti di fantasia opposti a un mondo fenomenico indipendente: per i primi uomini non esiste un cielo che non sia Giove, un fulmine che non sia folgore divina, un mare che non sia Nettuno e via dicendo. Il mondo dell’umanità fanciulla è in tutto e per tutto un mondo poetico-mitologico, in cui non c’è alcuna differenza tra realtà e fantasia, tra esperienza e racconto.

Poeti per natura, dunque, fatalmente immaginatori e creatori di mondi, questo è ciò che siamo secondo Giambattista Vico, che nota come anche nel suo tempo, a fronte di alcune importanti scoperte scientifiche, l’uomo tenda ad antropomorfizzare gli elementi naturali e caratterizzare i processi fisici come fossero azioni di soggetti agenti[7], a testimonianza dell’incorreggibile attitudine poetico-narrativa dell’essere umano.

Chiaramente l’autore della Scienza Nuova, fermo credente, non mette in dubbio la veridicità delle convinzioni religiose della sua epoca, che sicuramente ad oggi risulterebbero ai più pienamente inserite nel dispositivo che lui stesso descrive. D’altra parte, sarebbe da parte nostra terribilmente arrogante pensare di essere esenti da questo meccanismo. La tendenza Neopositivista, tanto presente dal Novecento europeo in poi, ci spinge a reputarci a una sorta di punto di arrivo della conoscenza, considerando ormai superate le varie narrazioni etiche e religiose spesso relegate a epoche e culture lontane da quella in cui viviamo.

Ciò di cui il filosofo sembra volerci avvertire è che la presenza di una narrazione che descriva il mondo, o meglio che lo costituisca, non solo è inevitabile ma, anzi, è necessaria. La creazione po(i)etica di storie e racconti è il modo naturale in cui l’essere umano conosce il mondo e si inserisce in esso. Allontanarci perciò da questa propensione non può che portare a una frattura tra l’uomo e il mondo che ha costituito, l’unico al quale può avere accesso.

In quello che è probabilmente il primo periodo nell’intera storia dell’umanità nel quale la maggior parte della popolazione, almeno in occidente, nega totalmente qualsiasi genere di narrazione mitologico-religiosa (che, non a caso, finisce per essere spesso cercata in forme differenti), Giambattista Vico, filosofo in apparenza così distante dal nostro tempo, può dunque aiutare, attraverso la sua geniale ed estemporanea ricerca intorno all’essere umano, a capirci e a capire il senso di smarrimento spirituale e ideologico che caratterizza la nostra epoca, perché ora più che mai è necessario riscoprirsi «poeti».

Jacopo Biolatti

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[1]G. Vico, La Scienza Nuova, a cura di Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1959, p. 27 (disponibile su letteraturaitaliana.net).

[2] Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Sandron, Palermo 1902.

[3] G. Vico, La Scienza Nuova, cit., p.157.

[4] Ivi, p. 134.

[5] Ivi, p. 157.

[6] Ivi, p. 95.

[7] Cfr. Ivi, pp. 97 e 157-158.

Redazione

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