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Se anche le pietre sono vive: altre ontologie e la vita di mondi altri

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Il discorso contemporaneo occidentale (quantomeno nella sua manifestazione più propriamente immediata e non specialistica) sembrerebbe mostrarsi piuttosto concorde rispetto all’elaborazione di una definizione universalmente valida della categoria di “vita”. Ad oggi, la scoperta della molecola del DNA ha condotto all’identificazione della vita come proprietà intrinseca ascrivibile a parametri sostanzialmente biologici e, di conseguenza, valutabili e indagabili attraverso strumenti e modalità propri delle scienze naturali.

Tuttavia il dibattito che ha informato la storia occidentale rispetto alla ripartizione binaria degli enti nelle classi di “cose animate” (o viventi) e “cose inanimate” (o non-viventi)[1] ha preservato già dai suoi esordi, secondo l’antropologo Tim Ingold (2019), un presupposto insindacabile:

[…] la vita è un attributo che si applica agli oggetti. Lo cerchiamo in un mondo che è già fatto di cose-in-sé, la cui natura essenziale è data, indipendentemente dalla loro collocazione e coinvolgimento all’interno di campi relazionali più ampi. (Ingold 2019, p. 66).

Effettuare una distinzione tra le cose animate e le cose inanimate si configura, dunque, come un’operazione piuttosto semplice, perlomeno se effettuata entro i limiti dell’ontologia ed epistemologia occidentale: o un ente possiede di per sé le qualità organiche identificate come proprie della vita o non le possiede.

Eppure, tale dualismo fondativo (animato/inanimato) apparentemente insignito di validità universale (specie se corroborato da giudizi elaborati empiricamente) non sembra trovare ovunque nel mondo un riscontro tale da garantirne la traslazione in assioma.

Estendendo la riflessione a prospettive genericamente, e spesso dispregiativamente, identificate come Altre dal contesto occidentale dominante, l’applicazione di una demarcazione categoriale composta da una coppia di elementi mutuamente escludenti non sempre appare pertinente. In particolare, le modalità d’identificazione proprie dei sistemi rappresentazionali dell’America indigena, sia in contesto nordamericano che amazzonico, si caratterizzano per un’interpretazione della vita non come proprietà intrinseca di enti discreti, bensì come condizione dell’essere all’interno di un “campo relazionale” (Ingold 2019, p. 67). Tale assetto ontologico, sembrerebbe dunque mettere in discussione l’essenziale solipsismo antropocentrico caratteristico della prospettiva occidentale (ascrivibile, con buona pace di Battiato, a un centro di gravità permanente che circoscrive orbite limitate per gli elementi ontologicamente secondari che gli gravitano attorno).

 L’ontologia Ojibwa[2], analizzata da Tim Ingold a partire dal lavoro di A. Irving Hallowell Ojibwa Ontology, Behavior and World View (1960), assume in tal senso una funzione esemplificativa paradigmatica; risulta tuttavia quanto mai necessario riconoscere, all’interno di un continuum di espressioni ontologiche indigene potenzialmente simili tra loro, ciascuna nella propria specificità, al fine di evitare generalizzazioni dettate da pregiudizi etnocentrici ed esotizzanti, funzionali solo allo sviluppo di un comparativismo con l’Occidente che romanticizza con toni paternalistici l’Altro.

Le distinzioni tra animato e inanimato effettuate nel contesto culturale Ojibwa, come descritte da Hallowell, sembrano essere tracciate in una maniera apparentemente inintelligibile per l’osservatore occidentale. Un anziano nativo afferma che non tutte le pietre sono vive, ma alcune possono esserlo; alla luce delle testimonianze raccolte, che narrano di pietre dotate di bocca e di pietre che replicano se interrogate, Hallowell stabilisce che il discriminante necessario a definire una pietra come viva o meno sia, di fatto, l’esperienza diretta.

Come sostiene Ingold, a partire dall’analisi dei resoconti etnografici forniti da Hallowell, l’animazione delle pietre (e di qualsiasi ente) si configura come una qualità che emerge in un ente non in quanto tale, bensì in funzione della sua collocazione all’interno di un campo relazionale, imperniato attorno alla persona umana. La vita degli enti, che include anche manufatti specificamente antropici come le pipe, è dunque determinata dal loro posizionamento all’interno del contesto in cui sono collocati ed esperiti da soggetti umani. Proprio in virtù dell’impossibilità di classificare aprioristicamente, in funzione di specifiche caratteristiche permanenti predeterminate, gli oggetti che li circondano, l’ontologia degli Ojibwa sembrerebbe piuttosto riconoscere agli enti una sostanziale mutevolezza di fondo. È solo successivamente all’esperienza individuale del soggetto percipiente (per sua natura, dunque, variabile da individuo a individuo e sottoposta alla specifica contingenza dell’incontro con lo specifico ente) che diventa possibile disvelare la natura degli oggetti che si incontrano; si rivela, dunque, tassativo instaurare forme variamente definite di relazionalità con l’oggetto affinché se ne possa stabilire la natura animata o inanimata, la quale sarà comunque da considerarsi circoscritta nel tempo e sempre passibile di variazioni di status.

Mary Black ha definito tale concezione della percezione come anti-tassonomica (Black 1977), ovvero caratterizzata dalla negazione di categorie classificatorie ordinate e invariabili; tale definizione risulta particolarmente appropriata soprattutto in accordo con il non riconoscimento degli Ojibwa delle categorie di animato e inanimato come mutuamente escludenti. A tal proposito, Black sottolinea come la traduzione letterale del termine Ojibwa che indica le “cose viventi” sarebbe “quelli che seguitano nello stato di essere vivi”.

In contrasto con la staticità del sistema classificatorio occidentale, che consente l’incasellamento definitivo e inequivocabile di un ente entro una dualità di stati dell’essere tra loro antitetici, secondo Ingold, la modalità d’identificazione ojibwa significa invece l’esperienza di vita come un progetto. Nell’universo rappresentazionale ojibwa la vita assume la connotazione di una totalità processuale in divenire, una forma progettuale che si è costantemente chiamati ad adempiere attraverso uno sforzo quotidiano di rinnovamento, in funzione del quale l’essere viene generato; è il “potenziale che il processo vitale ha di generare esseri dalle forme molteplici” (Ingold 2019, p. 69). In tal senso, sostiene Ingold, concepire la vita come attributo empiricamente dimostrabile proprio di individui isolati risulta inesatto; in quanto progetto generativo, il processo vitale è costitutivamente relazionale, è inscritto all’interno del campo totale delle relazioni in cui gli enti sono situati.

Gli esseri umani non fanno eccezione: sono vivi e partecipi del continuum del processo vitale solo in quanto non ontologicamente astraibili dal contesto in cui sono inscritti, costruito a partire dall’intersezione di campi spaziali, temporali e relazionali. Tale asserzione, tuttavia, esula dal tracciato epistemologico determinato da altri dualismi propri della prospettiva naturalista occidentale, la quale conferisce agli esseri umani il privilegio di essere gli unici ammessi allo status di persone, in funzione di una nostra presunta interiorità comune[3] (la mente, apparentemente in grado di qualificarci come più che meri esseri organismi biologici).

In opposizione alla costruzione dualistica occidentale, che istituisce il proprio universo di senso a partire dalla categorizzazione del reale in classi mutuamente escludenti e tra loro irrelate, l’ontologia indigena si identifica, al contrario, come fluida, edificata a partire dal riconoscimento di una forma estensiva e omnicomprensiva di relazionalità come base del vivere e dell’abitare il mondo. In un presente sull’orlo del collasso climatico, deprivato di ogni ragionevole capacità immaginativa, avventurarsi oltre il dualismo, osando postulare mondi possibili di agency distribuite oltre le nozioni di soggetto e oggetto[4] e forme di relazionalità ibridate che valicano l’umano e il vivente[5], potrebbe rendere possibile una forma nuova di progettualità per un futuro comprendente umani, non umani e territori.

In questo senso, cosmologie indigene in grado di vedere la vita nelle pietre, ascrivibili alla modalità d’identificazione che Philippe Descola definisce “animismo”, non sono, sostiene Viveiros De Castro, più vere dell’ontologia occidentale. Possono, tuttavia, rivelarsi più utili.

Articolo di Mariagiulia Gargiullo


[1] cfr. Ingold, Tim, 2019: Sogno di una notte circumpolare in R. Brigati e V. Gamberi, Metamorfosi- La Svolta ontologica in antropologia, Macerata: Quodlibet, p. 66

[2] Gli Ojibwa sono una “Tribù indigena nordamericana del gruppo linguistico algonchino, stanziata oggi in riserve istituite dai governi canadese e statunitense nella stessa area da essi precedentemente occupata (Manitoba, Minnesota, North Dakota, Michigan, Montana). Cacciatori-raccoglitori, vivevano in bande indipendenti. L’organizzazione sociale era basata sulla suddivisione in clan totemici patrilineari ed esogamici.” da Enciclopedia Treccani, Ojibwa, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/tag/ojibwa/ consultato il 22.01.2023.

[3] cfr. Descola, Philippe, 2019: Modi di essere e forme di dipendenza in R. Brigati e V. Gamberi, Metamorfosi-La svolta ontologica in antropologia, cit., p. 102.

[4] B. Latour, Agency at the time of the Anthropocene, “New Literary History”, vol. 45, pp. 1-18, 2014.

[5] D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press Books, 2016.

Bibliografia

Descola, Philippe, 2019: Modi di essere e forme di dipendenza in R. Brigati e V. Gamberi, Metamorfosi- La svolta ontologica in antropologia, Macerata: Quodlibet, pp. 93-107.

Haraway, Donna, 2016: Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham: Duke University Press Books.

Ingold, Tim, 2019: Sogno di una notte circumpolare in R. Brigati e V. Gamberi, MetamorfosiLa Svolta ontologica in antropologia, Macerata: Quodlibet, pp. 53-93.

Kohn, Eduardo, 2013: How Forests Think: Towards an Anthropology Beyond the Human, Oakland: University of California Press. Trad. it. di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Come Pensano le Foreste: per un’antropologia oltre l’umano, Milano: Nottetempo, 2021.

Latour, Bruno, 2014: Agency at the time of the Anthropocene, “New Literary History”, vol. 45, pp. 1-18.

Viveiros de Castro, Eduardo, 1998: Cosmological Deixis and Amerindian Perspectivism, “The Journal of the Royal Anthropological Institute”, vol. 4. pp. 469-488.

Viveiros De Castro, Eduardo, 2019: Il Nativo Relativo in R. Brigati e V. Gamberi, Metamorfosi- La svolta ontologica in antropologia, Macerata: Quodlibet, pp. 107-145.

Redazione

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