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Se tuo zio è Sigmund Freud puoi anche cambiare il mondo

4 minuti di lettura

Edward Bernays fino all’altro giorno per me era un nome come un altro.
Ora decisamente non lo è più.
Vediamo cosa posso dire di questo signore.
Innanzitutto suo zio era Sigmund Freud, e questo potrebbe essere significativo come anche no, ma decisamente lo è: la cosa più interessante di questo legame di parentela è che il nipote Edward ha deciso di usare le idee dello zio per avere un tornaconto economico e in effetti c’è anche riuscito – tanto per dire, le edizioni statunitensi delle opere di Freud sono pubblicate tramite il nipote che dall’alto della sua posizione socialmente privilegiata cerca di aiutare lo zio che si ritrova sul lastrico dall’altra parte del mondo. Edward gli propone anche di scrivere su Cosmopolitan, ma per lo zio è decisamente troppo. E’ un’idea impensabile e volgare. Per di più per Freud che non nasconde un’antipatia per l’America e gli americani.

Il nipote gli fa una proposta simile per un motivo che a noi può sembrare banalmente molto semplice: per farsi pubblicità.
Ma il nipote di Freud è pressoché l’inventore della pubblicità.
E’ l’inventore delle cosiddette “pubbliche relazioni”, e in effetti non mi ero mai chiesta quando e a che scopo fossero stati sposati questi termini che mi fanno anche un po’ paura.

220px-Edward_Bernays.jpgEdward Bernays si era trasferito in un’America già industrializzata, una società di massa con abitanti concentrati nelle città. Aveva studiato le idee dello zio sull’inconscio e la parte irrazionale della mente degli uomini, e si chiese se fosse possibile trarre un guadagno dalla manipolazione dell’inconscio.
Le persone che gli furono intorno lo descrivevano come un uomo buffo e un po’ impacciato.
Era come se non avesse la capacità di gestire gli altri individualmente, ma fosse un genio nel capire come gestirli in massa.

Si concentrò sull’idea che l’informazione potesse guidare il comportamento.
Decise di cercare il modo di evocare l’emozione irrazionale della gente.
Cioè di evocare una particolare connessione emozionale ai prodotti – per intenderci: non si tratta di avere bisogno di quel vestito, ma di come ci si sente con addosso quel vestito.
I tentativi di manipolazione naturalmente c’erano già, ma la maggior parte dei suoi contemporanei aveva ancora un’idea acerba di quanto potesse essere determinante l’informazione mediatica: riteneva fosse sufficiente bombardare le masse con i fatti a cui farle acconsentire.
Lui era più avanti.
Iniziò una collaborazione con le corporations americane, che erano incuriosite dai suoi studi e dalle sue proposte.
Tanto per intenderci, può darsi che le donne abbiano iniziato a fumare esattamente come gli uomini, superando i tabù, grazie a una messinscena femminista che proprio Bernays, d’accordo con la Lucky Strike, aveva sottoposto ai media del tempo. Ma ci sono molti altri esempi su cui è interessante documentarsi.

Bernays, insieme alle corporations con cui collaborava, tentò di trasformare la cultura dei bisogni in una cultura dei desideri.
Iniziarono, a tavolino, a disegnare una nuova mentalità, con cui plasmare i desideri – e quindi gli obiettivi – e quindi la volontà, delle persone che ricevevano le informazioni.
Bisognava insegnare alle persone a volere cose nuove, prima che le vecchie si fossero consumate del tutto.
Fino a quel momento, erano i ricchi a potersi permettere cose di cui non avevano bisogno.
Adesso, si doveva invece insegnare alle persone che potevano sognare, perché potevano avere quello che desideravano.
I prodotti non vennero più pubblicizzati per la loro necessità.
Bernays iniziò ad inserire pubblicità occulte nei film: vestiva le stelle con vestiti e gioielli di produzione delle altre ditte che lui rappresentava.
Un aneddoto interessante è che si vantasse di essere stato il primo a dire ai produttori di automobili che potevano venderle come simboli della sessualità maschile.
Come fu lui stesso a promuovere l’idea che la gente comune avrebbe dovuto comprare azioni da banche o aziende sempre da lui rappresentate.
Bernays e il suo seguito compresero che potevano prendere l‘ideale democratico e trasformarlo in un palliativo, in una sorta di distribuzione della pillola della felicità, che avrebbe risposto a un dolore immediato, senza cambiarne le circostanze.
Si cambiavano così i rapporti di potere che avevano governato il mondo fino a quel momento: la democrazia non era più una conquista politica.
La democrazia era quella società che poteva garantire a chiunque di avere quello che voleva.
E così il termine democrazia, sporcato, sbrindellato, ha smesso di avere un significato per noi. L’ideale democratico è diventato esattamente il garante dei rapporti di potere di cui parlava Bernays.

Non sto facendo del complottismo.
L’attendibilità delle notizie è già solo garantita dal contenuto dei suoi scritti.
Anche solo i titoli sono eloquenti – Crystallizing public pinion, The verdict of public opinion on propaganda, Propaganda, Presenting american business, Public relations as a career, Tomorrow’s public relations, Take your place at the peace table, The engineering of consent, How business can sell the american way of life to the american people, e così via.

Sono rimasta esterrefatta.
Non tanto del fatto che il consumismo, la società in cui viviamo oggi, sia stata pensata come un progetto nel momento in cui nasceva.
Questo è già interessante ma non mi stupisco poi così tanto.
A idearla non sono state personalità isolate. Non è stata certo una persona. Non è stato certo solo Bernays.
Anche Bernays e i suoi compagni di progetto erano a loro volta figli del loro tempo, e la storia non può essere attribuita alle singole azioni di singoli uomini.
Tutto è così stretto in una rete che è impossibile dire cosa sarebbe potuto succedere se una persona o un piccolo gruppo di persone non fossero esistite.
Forse sarebbero successe esattamente le stesse cose.
Ma sono esterrefatta di qualcos’altro.
Del fatto che non se ne parli.
Che nessuno mi sia mai venuto a dire chi fosse Edward Bernays.
Come se non fosse importante.

Siamo degni figli della nostra società.
E’ terrificante guardarla e accettarla.
E’ doloroso.
Perché accettarla significa o doversi accettare nella propria vuotezza o dover accettare di rimanere fuori da un coro troppo potente perché la propria voce possa essere sentita.
Oppure significa umiliarsi rinunciando a parlarne, innaffiando il proprio orticello felice in una tacita consapevolezza.
E’ doloroso.
Ma è vitale.
E’ vitale che se ne parli, è vitale comprenderlo.
E’ anche solo vitale sapere queste cose.
Perché se si comprende il proprio tempo, in qualche modo non si è del tutto perduti.
Si può sapere dove si sta andando.

Ero combattuta tra l’ottimismo di pensare di poter cambiare le cose e il pessimismo di pensare che potessero peggiorare ulteriormente.
Però, per ora, sono approdata a questa speranza: che conoscere le cose sia già il primo passo per il cambiamento.
Informiamoci su Edward Bernays e su tutti gli altri degni nipoti che ancora non conosciamo.
Cerchiamo di capire come siamo arrivati qui e qualcosa sarà già cambiato. Nelle nostre coscienze, e quindi nel mondo.

Silvia Lazzaris

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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