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La tragedia di Patrick Zaki è sempre più la nostra tragedia

Dopo 18 mesi di carcere, è iniziato il processo a carico di Patrick Zaki. Una vicenda che ha fatto luce sul ruolo che l’Italia gioca nelle relazioni con l’Egitto

3 minuti di lettura

Patrick Zaki è in carcere da oltre 18 mesi. Ufficialmente in “detenzione preventiva”, ma di fatto permanente, come tanti prigionieri politici che in Egitto condividono il suo stesso destino. A Bologna un grande cartellone pubblicitario, realizzato dall’artista Gianluca Costantini, affisso sulle impalcature per la ristrutturazione del Palazzo dei Notai, sovrasta Piazza Maggiore dal 26 maggio 2020. «Freedom per Patrick Zaki» recita il manifesto. Oggi, all’inizio del processo a suo carico, è passato oltre un anno da quel manifesto, ma tutt’ora nessuno ha mosso un dito.

Il ragazzo, arrestato al rientro al Cairo dopo aver lasciato temporaneamente Bologna, città in cui frequentava un master in studi di genere, si trova in carcere dal febbraio 2020, accusato di aver criticato il regime attraverso alcuni post su Facebook, e quindi identificato come minaccia nazionale. Il regime di Al Sisi, ogni anno, rinchiude buttando via la chiave centinaia di blogger, attivisti, giornalisti, militari, studenti che fanno propaganda contro il governo. Parlare dell’affaire Patrick Zaki significa sensibilizzare anche su tutti gli altri.

Fonte: Repubblica Bologna

Relazioni politiche e sanzioni, rinfreschiamoci la memoria

La vicenda Zaki ha fatto luce a livello popolare sul ruolo che l’Italia gioca nelle relazioni politiche ed economiche con l’Egitto. Relazioni che vanno dal coordinamento delle crisi in Nord Africa e Medio Oriente alla vendita di armi e ad accordi energetici tra i due Paesi. La paradossalità della situazione diviene ancor più evidente quando, nell’agosto 2020, l’UE (di cui l’Italia è uno degli attori fondamentali), emanò le “sanzioni” contro la Russia di Vladimir Putin, in conseguenza all’attentato all’attivista politico Aleksej Naval’nyj, avvelenato molto probabilmente dallo stesso governo russo. Negli stessi mesi, dopo le elezioni in Bielorussia del 9 agosto 2020, quando il presidente Lukashenko si è autoproclamato vincitore, pilotando le votazioni, assistemmo a forti manifestazioni di piazza, in cui il popolo bielorusso chiedeva libertà e democrazia, mentre il neopresidente rispondeva con violenza e repressione. Anche allora l’Europa si mosse emanando altre sanzioni.

La lista potrebbe continuare con la repressione degli Uiguri nello Xinjiang e le rispettive minacce dell’Occidente contro la Cina, con il pugno di ferro attuato verso Viktor Orban nei confronti dello stato di diritto in Ungheria, con la recente affermazione di Mario Draghi secondo il quale Erdogan sarebbe un dittatore. Ma perché, allora, l’Egitto, luogo oggettivamente non compatibile con la carta dei diritti fondamentali, non subisce lo stesso trattamento?

Uno scatto delle recenti proteste in Russia.

E l’Egitto?

L’Egitto è legato storicamente all’Italia fin dagli anni ‘60, quando regnava Gamal Abd el-Nasser, Presidente della Repubblica egiziana, dal 23 giugno del 1956 al 28 settembre del 1970, giorno della sua morte. Le relazioni tra i due paesi sono molto complesse. Innanzitutto l’ENI, azienda per gas e luce di proprietà di Cassa depositi e prestiti, e quindi statale, ha stipulato diversi patti per svarianti miliardi di dollari per l’estrazione di gas nelle ricche aree egiziane. Secondo OrientXXI, nel 2019 l’Egitto è diventato il primo cliente al mondo dell’industria bellica italiana. In sostanza – si legga tra le righe – i rapporti commerciali favorevoli per lo stato italiano permettono di chiudere un occhio sui crimini commessi dal regime di Al Sisi.

La ragione di questa forte cooperazione tra i due Paesi si trova nella storia, all’indomani della Rivoluzione di Piazza Tahrir, nel quadro delle primavere arabe. Dopo la deposizione dell’ex Presidente Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubarak, ci furono le prime elezioni democratiche, vinte dai Fratelli Musulmani. L’evento preoccupò non poco l’Occidente, su cui iniziava a gravare il pericolo dei radicalismi islamici e i conseguenti attentati jihadisti. Al Sisi, allora ministro della difesa, colse la palla al balzo e nel 2013 intraprese un colpo di stato. Appena insediatosi al governo represse nel sangue il tentativo di resistenza dei Fratelli musulmani e i suoi sostenitori. L’Occidente, in particolar modo Berlino, Parigi e Washington, videro attraverso l’iniziativa di Al Sisi l’occasione per limitare l’espansione islamica.

Gli errori dell’Occidente

Eppure, attuando la strategia “il nemico del mio nemico è mio amico” il mondo occidentale commise un errore. Da allora, nonostante il ruolo principale che gioca il Cairo nel contenimento delle forze jihadiste in Nord Africa, la repressione venne diretta anche su altri fronti, ovvero quelli che concernenti la libertà e la giustizia. Con Al Sisi l’Italia intensificò i propri rapporti con l’Egitto.

Oggi un altro problema, di natura più generale, riguarda la postura che l’Europa adotta nelle faccende di politica estera. Le sanzioni menzionate sopra, di fatto, non sono servite a nulla. La supremazia dell’interesse commerciale su quello umanitario si inserisce nel quadro della incapacità di sviluppare una strategia geopolitica a lungo raggio. I commerci con l’Egitto o gli accordi sulla Via della Seta con la Cina nel 2019, manifestano l’esigenza di pensare all’oggi, senza sapere come muoversi domani. L’Italia, come l’Europa, sembra “arrancare”, il contrario cioè di prendere posizione nel contesto geopolitico globale.

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Una crisi anche nostra

La ragione dell’arrancare europeo deve essere cercata nella crisi che l’Europa sta vivendo. Una crisi dovuta allo smarrimento, e talvolta al rifiuto, della tradizione che ha portato l’appendice asiatica a ciò che è oggi. Conoscere la propria storia culturale permette di selezionare i valori che ci hanno reso ciò che siamo, declinandoli nella grammatica dell’epoca che stiamo vivendo. Il rifiuto della tradizione culturale provoca uno smarrimento, che ha come principale conseguenza l’incapacità di cogliere le contraddizioni del presente.

Patrick Zaki – tutt’ora in carcere – è il simbolo contingente della nostra tragedia culturale. Una tragedia che non ci permette di prendere una posizione ideologica forte e difenderla, nonostante tutte le chiacchiere sulle libertà e i diritti in cui ci crogioliamo. 

Lorenzo Cazzulani

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